Ara Pacis. Il realismo sociale di Domon Ken

Articolo di: 
Giulio de Martino
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Una mostra importante quella del fotografo giapponese Domon Ken (1909 -1990) al Museo dell’Ara Pacis a Roma. Visitandola si comprendono tante cose. Innanzitutto si comprende che cosa sia un fotografo rigoroso: non un abile artigiano che fotografa qualunque cosa gli passi davanti all’obbiettivo, che insegue la realtà e le mode, che gioca a costruire immagini per ammaliare e stupire il pubblico. Domon Ken – che vediamo negli autoritratti con la sigaretta in bocca e con l‘esposimetro sull’occhio – non costruisce foto di consumo e neppure inventa il personaggio di se stesso en artiste. Si propone, invece, come testimone silenzioso, ma intenso, di ciò che accade.

La seconda cosa che si impara è che la storia del Giappone nel Novecento - argomento delle foto di Domon Ken - ha avuto una scansione per molti versi simile a quella nostra. Un paese così lontano e diverso -  che l’Italia ha incrociato quando il “Patto Tripartito”  (27 settembre 1940) tra Hitler, Mussolini e Hiro Ito ce lo ha affiancato nella disastrosa avventura della Seconda guerra mondiale – ci svela una passionalità umana e sociale molto vicina alla nostra.

La mostra monografica di Domon Ken ci propone 150 fotografie, in bianco e nero (solo le più recenti sono a colori) realizzate tra gli anni Venti e gli anni Settanta del ‘900. Sappiamo che la tecnologia fotografica ha conosciuto significative trasformazioni nello scorso secolo (dal bianco e nero al colore, dalla biottica alla reflex) e Domon Ken le ha attraversate tutte: con un perfetto parallelismo di progresso tecnico ed evoluzione poetica. I primi scatti di Domon sono degli anni ’30 e ce lo mostrano come un abile e suggestivo fotogiornalista: parate militari, il corpo delle crocerossine, gli esercizi ginnici, la vita pubblica. La critica scrive qui di “fotografia di propaganda” e, in effetti, Domon fotografava una società disciplinata e militarizzata da un regime autoritario che aveva molti punti di contatto con il fascismo.

Ci si domanda se per questo lavoro fotografico sarebbe appropriato parlare di “fotografia di propaganda” o,  piuttosto, di “foto-giornalismo”? Sicuramente la committenza di quelle immagini era statale, ma lo sguardo fotografico di Domon Ken non appare apologetico, fanatico. C’è un elemento descrittivo e quasi narrativo in quelle foto che trasgredisce il progetto propagandistico: i volti e i corpi sono quelli di persone, di donne non di burattini. La fotografia di Domon Ken degli anni finali della seconda guerra mondiale e degli anni ’50, invece, va definita senz’altro come “realismo sociale”. Adesso la sua produzione  – che è passata attraverso il momento apicale e tragico della documentazione della tragedia delle bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki  – diventa risposta a una chiamata civile, slancio umanitario. Nessuna bellezza, nessuna forza dentro l’immagine: solo dolore e composta rassegnazione di fronte al destino che si era abbattuto in modo devastante sul sacro Giappone. La testimonianza delle sofferenze delle migliaia di vittime ci interroga sul senso della violenza.

Ma la fotografia di Domon Ken del secondo dopoguerra ci riserva ancora due importanti evoluzioni. Henri Cartier Bresson – che nel 1947 aveva dato vita all’agenzia foto-giornalistica Magnum – fu in Giappone nel 1965. Già negli anni precedenti aveva suggestionato Domon schiudendogli una modalità nuova e diversa del fotografare. Domon divenne, studiando Cartier Bresson, un fotoreporter “indipendente”, decise cioè di usare la fotocamera in soggettiva e con libertà per ritrarre “frammenti di vita”, storie di persone. Senza ridurle in categorie e in schemi prefissati: lasciando la vita fluire libera davanti all’obbiettivo. Il suo realismo sociale si esprime in particolare nei due reportage: Hiroshima (1958), considerato dal premio Nobel Oe Kenzaburo la prima grande opera di arte contemporanea del Giappone e “I Bambini di Chikuho”, la serie fotografica sulla miseria nei villaggi dei minatori collocati nel sud del Giappone: un’ampia e vivace ritrattistica dei bambini incontrati per le strade del paese tra immondizia, tuguri e giochi innocenti.

Dopo il reportage sociale ed esistenziale degli anni ’50 e ’60  – genere che in Italia conosciamo bene attraverso le foto, ad esempio, di Mario Giacomelli. Gianni Berengo Gardin, Ugo Mulas - un altro elemento categoriale avrebbe arricchito il progetto fotografico di Domon Ken: la fotografia del Giappone come luogo di una «cultura altra», di un Giappone che ha nella tradizione buddhista e nei suoi culti religiosi una riserva identitaria, filosofica e culturale, da contrapporre all’americanismo trionfante del Dopoguerra. Le foto in bianco e nero dei templi buddhisti, delle statue poste nell’oscurità e fra gli alberi, ma anche le foto del teatro dei burattini e della cultura popolare  – come pure quelle degli scontri di piazza degli studenti universitari che si oppongono, in chiave anti-imperialista, al Patto di cooperazione USA-Giappone (23 giugno 1960) e ai nuovi accordi del 1967, ci riconducono - in Italia - sia alla fotografia etnologica di Franco Pinna - che seguì Ernesto de Martino in Lucania e nel Salento (1952 -1959) - sia alla fotografia politica degli anni ’60 degli emigranti, degli operai, degli studenti in lotta.

La mostra all’Ara Pacis è stata promossa da Roma Capitale/Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il supporto del “Bunkacho. Agenzia per gli Affari Culturali del Giappone” e della “Japan Foundation”. L’ha organizzata “MondoMostre Skira” con “Zètema Progetto Cultura” per la cura della professoressa Rossella Menegazzo, docente di Storia dell’Arte dell’Asia Orientale all’Università degli Studi di Milano e del Maestro Takeshi Fujimori, direttore artistico del “Ken Domon Museum of Photography”. Sponsor quanto mai qualificati e significativi sono stati la Nikon, marchio da sempre legato a Domon Ken, e la Fujifilm che ha curato la stampa in grande formato delle foto. 

Domon Ken, nell’ambito della produzione fotografica del secondo ‘900 si è distinto per la particolare attenzione alla connessione diretta tra il lavoro meccanico del congegno fotografico e il comportamento libero del soggetto dell’immagine. La sua poetica “realistica” ha teso a cancellare dall’immagine gli elementi retorici e di superflua drammaticità. Come se l’occhio meccanico della fotocamera potesse coincidere con lo sguardo “zen” del fotografo. Questo delicato punto di equilibrio fra il fotografo e la fotografia Domon Ken lo esprimeva cosi: «Sono immerso nella realtà sociale di oggi, ma allo stesso tempo vivo le tradizioni e la cultura classica di Nara e Kyoto; il duplice coinvolgimento ha come denominatore comune la ricerca del punto in cui le due realtà sono unite ai destini della gente: la rabbia, la tristezza, la gioia del popolo giapponese». Come dire che per fare “fotografia nazionale” in Giappone bisogna mettersi dalla parte di un popolo che guarda alla sua storia – dopo Hiroshima e Nagasaki - con sereno distacco. 

Una parte avvincente della Mostra all’Ara Pacis è la sezione dei “Ritratti” con i volti dei personaggi giapponesi di spicco del mondo dell’arte, della letteratura, della scienza: da Yukio Mishima a Jun’ichiro Tanizaki, da Taro Okamoto a Yusaku Kamekura. Abbiamo qui raffigurato il concetto giapponese della personalità e della soggettività umane. Il linguaggio appare simile a quello della ritrattistica dei divi e dei vip dei reporter americani o francesi e dei loro magazine. In realtà si tratta di volti che provengono da un mondo altro, da una cultura differente che si offre allo sguardo dell’immagine contemporanea senza indentificarvisi, proseguendo in una consuetudine di vicina distanza.

Nell’ultima parte della sua attività di fotografo Domon Ken si impegnò nella promozione culturale del suo Paese all’estero. La si documenta nella sezione sul “Pellegrinaggio ai Templi Antichi”: raccolta di immagini di sculture e di architetture buddhiste, di tesori d’arte e scorci di paesaggi, riscoperti nei viaggi lungo tutto il Giappone alla ricerca della bellezza dei luoghi sacri dell’antichità. Mi permetto di osservare che l’immagine a colori di Domon Ken non è pari a quella del bianco e nero. Sembra che le sue foto si siano gradualmente omologate all’international style del paesaggismo e dell’esotismo, al sapore turistico che sprigionano le immagini enfatiche dei rotocalchi e delle riviste patinate. In conclusione, l’opera di Domon Ken può essere letta anche in chiave autobiografica, come documentazione di una fotografia scaturita da criteri personali che trasformano lo scatto in un momento di dialogo con il soggetto: sia un paesaggio, una scultura, una persona  Quella di Domon Ken è stata la parabola emblematica del fotografo nel ‘900: prima pioniere della fotografia di massa, poi documentatore coraggioso delle crisi e delle rivolte di metà secolo e, infine, operatore dell’immagine post-moderna all’interno dell’industria della comunicazione globale. A Domon Ken è stato dedicato un avveniristico e suggestivo museo personale della fotografia nella città natale di Sakata nel 2003

Pubblicato in: 
GN33 Anno VIII 7 luglio 2016
Scheda
Titolo completo: 

Domon Ken. Il Maestro del realismo giapponese 

Museo dell’Ara Pacis
Lungotevere in Augusta, Roma
Apertura al pubblico    27 maggio – 18 settembre 2016
Tutti i giorni dalle ore 9.30 – 19.30
(la biglietteria chiude un’ora prima)