Cometa Off. Neil LaBute e l'oscura intimità della famiglia

Articolo di: 
Stefano Coccia
Dark

Se poche settimane fa il teatro Cometa Off aveva propiziato un incontro bello e vivace con la poetica di David Mamet, proponendo il suo American Buffalo, adesso è il turno di un altro grande della drammaturgia anglosassone contemporanea: Neil LaBute. E come si era detto per Mamet, trattasi anche qui di personalità al bivio tra teatro e cinema, portata a esprimere l’essenza del proprio lavoro su entrambi i terreni, con una analoga intensità. Del resto era stato un film, Nella società degli uomini, a rivelarci già nel 1997 due talenti in ascesa, che insieme hanno portato avanti diversi progetti: l’attore Aaron Eckhart e, per l’appunto, Neil LaBute, sceneggiatore e regista capace di costruire escalation drammatiche laboriose, sofferte, pungenti, partendo dall’apparente normalità di contesti famigliari o lavorativi.

Quella sensibilità e quella finezza di scrittura, per cui i tratti più spigolosi dei personaggi e del loro vissuto emergono, come ondate di piena, da lunghi dialoghi costruiti con cura certosina, si fanno apprezzare a teatro persino di più che sul grande schermo, dove pure risultavano così efficaci. Lode quindi al regista Max Amato e ai suoi tre interpreti, Daniele Antonini, Luca Guastini e Benedetta Comito, per aver portato al Cometa Off un testo impegnativo ed emotivamente devastante come In a dark dark house.

Sia nel complicatissimo rapporto tra due fratelli, Terry e Drew, sia nella folgorante apparizione di una lolita di provincia il cui legame con il loro passato verrà chiarito strada facendo, esce fuori a fiotti tutta l’animosità di una middle class statunitense circondata da rimorsi, segreti di famiglia, scelte eticamente discutibili, fughe e ricongiungimenti forzati; un intricato nido di vespe costruito su ricordi velenosi, tra cui trova ampio spazio una brutta storia di abusi sessuali. E qui la livida, incalzante detection di LaBute sembra quasi flirtare col cinema di un altro grande, Todd Solondz, per quanto le venature acide di tali rivelazioni assumano nei film di Solondz una connotazione ancora più grottesca, esagerata, esibita; mentre il torbido nella pièce di LaBute viene a galla con una tempistica diversa, fatta di un continuo rimuginare e di depistaggi della memoria, da cui però si approda comunque a confessioni violente, inattese, sottilmente crudeli.

Le stesse scelte inerenti alla messa in scena, in primis impianto scenografico (di cui parleremo più avanti) e  musiche (ovvero stacchetti minimali ma molto evocativi tra un segmento e l’altro, composti per l’occasione da uno degli interpreti, Luca Guastini), contribuiscono al definirsi di una geometria del gelo interiore, poggiata su tre diversi movimenti. Tre conversazioni a due ugualmente ricche di quelle emozioni prima serrate nelle profondità dell’animo e poi lasciate andare. Tant’è che la struttura dell’opera, praticamente un trittico, tra le tante suggestioni potrebbe lanciare finanche quella di un’ideale parafrasi hegeliana, in forma di tesi, antitesi e sintesi. Partendo dalla tesi, se così vogliamo chiamarla, ci si affaccia già con la prima scena nel parco di un istituto psichiatrico dove si fronteggiano due fratelli, Drew e Terry, entrambi riluttanti ad aprirsi fino in fondo.

Drew, del tutto incapace di coniugare il successo negli affari con una condotta di vita minimamente responsabile e matura, c’è finito per una delle sue tante cazzate. E pare che l’ingrato compito di togliergli le castagne dal fuoco spetti, come è sempre stato, al fratellone Terry, l’unica persona affidabile di tutta la famiglia. Nell’incipit dello spettacolo l’incontro tra i due fratelli stenta un po’ prima di arrivare, come si dice, al punto. Ma appena i due protagonisti, parsi all’inizio un po’ frenati, cominciano a sciogliersi, il carattere e le tare di ognuno finiscono per imporsi, riportando ogni dialogo a un passato pieno di ombre. E in questo lo stile contenuto di Daniele Antonini alias Terry si rivela perfetto, per trattenere e poi rilasciare quelle emozioni ruvide, urticanti, risvegliate in lui dalle richieste e dalle affermazioni, talvolta pesanti, del fratello; un Luca Guastini a sua volta quasi elettrico, nel dar voce ai modi nervosi e alla sfacciataggine che caratterizzano Drew sin dalle prime battute.

Si è così entrati nel vivo: l’ambigua figura di Todd Astin, tizio che al pari di un padre manesco ha lasciato un’ombra inquietante nella vita di entrambi, campeggia già nei loro discorsi. Nel secondo segmento della pièce cambio di scena e cambio di tono, con quel manto verde posto sul palco che magicamente si trasforma nel campo da minigolf, dove Terry ricompare in compagnia di una ragazza, figlia del proprietario; apparentemente un semplice gioco di seduzione, con protagonista lei, quasi una “Venere scollata, in corpo da Lolita”, volendo citare a tradimento Ladro di cuori col bruco e cioè un brano di culto,  per i fan della band emergente Lo stato sociale.

Senza divagare troppo, il doppio registro dell’incontro lascia intendere che quella visita possa rappresentare altro, per quell’uomo a caccia del proprio passato, ma intanto il piedino ammiccante poggiato sul prato e i modi cordiali della meravigliosa Benedetta Comito lasciano intravedere un mondo a parte; quello di una ragazza annoiata e desiderosa di nuove esperienze, persa in un angolo della provincia americana che non sembra offrire alternative alla visione di qualche squallido programma in TV. E metabolizzato anche questo incontro, arriva (sempre hegelianamente) il momento della sintesi: i due fratelli si confrontano di nuovo, questa volta con toni ancora più accesi, questa volta con un susseguirsi di rivelazioni che fanno male come carta vetrata, nel giardino in cui Drew sta festeggiando il proprio ritorno a casa.

A proposito di quel prato verde, c’è da dire che in tutti e tre i periodi di cui si compone lo spettacolo la semplice funzionalità della scenografia riesce sempre ad aiutare gli interpreti, visibilmente partecipi, a tirare fuori il meglio. Ed è in particolare quel leggero dislivello sul palco a lavorare bene sulle prossemiche, sulle distanze tra gli attori, i quali (specie nel caso dei due fratelli, di statura diversa e quasi sempre impegnati  a prevalere l’uno sull’altro, almeno sul piano psicologico) assumendo la posizione più elevata sembrano quasi volersi assicurare un vantaggio, in quella continua e nevrotica (ri)costruzione di rapporti fondati sulle sabbie mobili di un torbido passato.

Pubblicato in: 
GN16 Anno V 26 febbraio 2013
Scheda
Titolo completo: 

Teatro Cometa Off

DAL 19 FEBBRAIO AL 3 MARZO 2013
IN A DARK DARK HOUSE
di Neil LaBute
regia Max Amato
con Daniele Antonini, Luca Guastini, Benedetta Comito
aiuto regia Michele Guastini
scene Giulio Ciccarese, Valentina Pontieri
luci Giuseppe Falcone
foto Manuela Parodi
musica Luca Guastini
dipartimento artistico Francesca Rocchi