Garzanti. I ricordi di una vita nel libro di Vittorio Sermonti

Articolo di: 
Giuseppe Talarico
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Vittorio Sermonti, studioso di letteratura ed interprete geniale della Divina Commedia di Dante Alighieri, è autore di un libro delizioso e notevole, intitolato Se avessero, finalista al premio Strega, ed edito dalla Garzanti. Recensendo questo libro, di cui è autore uno scrittore raffinato, colto e profondo come Sermonti, Mirella Serri sul supplemento Tuttolibri de La Stampa ha osservato in modo acuto come la narrazione in quest'opera letteraria tragga origine e derivi da un flusso di coscienza, per effetto del quale si coglie nel racconto la distanza esistente tra il Tempo narrato e il Tempo presente della narrazione.

Infatti il libro inizia con una scena indimenticabile per la sua drammaticità. Nei primi di maggio del 1945 tre partigiani irrompono nell’ingresso di una villa situata in via Domenichino, a Milano, dopo la fine della guerra civile, alla ricerca di un esponente della Repubblica Sociale. Nella casa, in cui viveva la famiglia dello scrittore, c’era suo padre, sua madre, le sue tre sorelle e i suoi fratelli. La persona ricercata dai partigiani era suo fratello maggiore, Rutilio Sermonti, che aveva partecipato alla guerra a fianco dei tedeschi e come sottotenente della Repubblica Sociale Italiana. Rutilio Sermonti, mentre la sua famiglia in presenza della armi puntate contro di loro dai partigiani nell’ingresso della villa rimase pietrificata dal terrore e dalla paura, evitò e sfuggì alla fucilazione, poiché in quella circostanza esibì la tessera rossonera, che ne attestata l’appartenenza ai gruppi anarchici.

Muovendo da quest'episodio, terribile e angoscioso, Vittorio Sermonti evoca nel libro il tempo della sua vita, con una scrittura colma di pensieri profondi, di immagini poetiche di rara perfezione e di riflessioni su oltre settanta anni di storia Italiana. Il padre di Sermonti, docente di diritto del lavoro, giurista e studioso, dopo la nascita della Repubblica Sociale nel Nord Italia, aveva lavorato alla redazione della carta della socializzazione, in pratica la carte del lavoro del nuovo Stato, che ebbe una vita brevissima. Sermonti ricorda il dolore e la disperazione di suo padre, quando, il 25 luglio del 1943, il regime fascista capitolò e cadde, evento storico che indusse la sua famiglia ad abbandonare la villa situata in viale Liegi a Roma e a trasferirsi a Milano nella villa di via Domenichino n. 41.

Mentre il padre fu un giurista e un sostenitore del regime, il nonno materno, un grande avvocato siciliano, che per primo adoperò la parola mafia in un tribunale del Regno, quando si celebrò il famoso processo legato all’omicidio Notarbartolo, era un convinto antifascista. Il narratore  nel libro si rivolge alla donna della sua vita, mentre dipana la matassa aggrovigliata dei ricordi, designata con l’espressione felice Occhi pescosi. Ricorda il momento in cui tentò invano di arruolarsi, come aveva fatto suo fratello maggiore, nella X MAS. Non avendo compiuto i sedici anni, la sua richiesta venne respinta. In questa parte della narrazione, mentre Sermonti con descrizioni letterarie intense e straordinarie rappresenta il processo di sgretolamento in atto in Italia e  in Europa a causa della guerra, osserva che l’istinto morale indusse le persone a partecipare alla catastrofe, sicché la scelta da quale parte schierarsi, se con i nazifascisti e i repubblichini oppure con gli angloamericani e i partigiani, per molti  fu dettata da fattori casuali e considerazioni  imponderabili.

Nel 1948, quando era autiere a Legnano,  maturò la decisione di passare dalla parte del "nemico", divenendo antifascista. Nell’immediato dopoguerra, Vittorio Sermonti nella città di Firenze compie i suoi studi di letteratura, ed è in questo periodo che inizia nel cenacolo di Santa Croce a declamare i versi e a studiare con passione la Divina Commedia. Commoventi e appassionate  le pagine che l’autore dedica al  rapporto che ha avuto  con suo padre, nelle quali si nota come l’amore che unisce un genitore al proprio figlio implica il dovere della reciproca protezione e la complicità sentimentale e intellettuale.

Per capire meglio la personalità di suo fratello, che rischiò di essere ucciso dai partigiani a Milano a guerra conclusa, Sermonti si sofferma a indagare il rapporto che vi era nell'ideologia fascista tra borghesia e antiborghesia, in pagine ammirevoli per rigore analitico ed intellettuale. Nella sua attività intellettuale, negli anni Cinquanta, Sermonti iniziò a collaborare con il terzo canale della Rai, e in questo periodo tradusse con passione le opere di Molière e Schiller. Proprio nel 1956, vagheggiando una nuova società più giusta e umana, l’autore decise di iscriversi al Partito comunista italiano, partito che fu costretto ad abbandonare dopo che vi furono i fatti di Ungheria, quando nel 1956 la rivolta popolare a Budapest venne repressa con la violenza dai carri armati sovietici.

Sermonti nel libro delinea un ritratto  memorabile dei suoi amici intellettuali, in particolare del saggista e giornalista Saverio Vertone e del critico letterario Cesare Garboli. Con Vertone l’autore condivideva la convinzione che  bisognava indignarsi per la diffusa iniquità sociale e pretendere di cambiare l’Italia e il mondo, impedendo alla finanza di prendere il sopravvento sull'autonomia della politica. Durante una conversazione con Vertone, Sermonti ha un'improvvisa illuminazione intellettuale, grazie alla quale formula il pensiero che l’Amore è Poesia, un'espressione tra le più profonde del libro. Con Cesare Garboli, che odiò sempre Saverio Vertone, Sermonti aveva in comune, oltre che la passione per la poesia di Dante e la letteratura ottocentesca, il sentimento della stupefazione di fronte  al cospetto del mistero inafferrabile della vita e della morte. Proprio nella casa di Cesare Garboli, situata  in piazza Ungheria a  Roma nel quartiere Parioli, i letterati si ritrovavano, come ricorda Sermonti in un parte del libro con uno stile degno di Marcel Proust, per discutere e conversare intorno alla  funzione civile della letteratura.

Alcuni di questi intellettuali  in quella circostanza sostenevano con un atteggiamento ironico  che la letteratura, in quanto arte legata alla espressione della bellezza, è inutile, mentre per l’autore è una attività fulgida e luminosa e imprescindibile. Negli anni Sessanta Sermonti visse a Praga per un breve periodo, proprio quando la primavera di Praga nel 1968 si concluse tragicamente, con l’annientamento della idea del socialismo del volto umano propugnata  da Alexander Dubček. In quel tempo  l’autore provò il disincanto e si accorse di essere privo di una identità politica e in preda allo smarrimento intellettuale.

Ricorda in questa parte del libro, la più bella, di avere letto, per ritrovare un modo di pensare criticamente il rapporto con la società e gli altri, il saggio di Radovan Richta sui grandi  riflessi culturali ed economici che poteva avere la idea di una società senza classi. Purtroppo, mentre le ideologie novecentesche hanno preteso di generare l’uomo nuovo, in nome di un progresso illusorio ed astratto, hanno finito per produrre il lager e il gulag. Come uomo l’autore avverte la responsabilità etica e morale  per il dolore che gli esperimenti ideologici novecenteschi hanno inflitto alla umanità.

Nella parte finale del libro, con accenti commossi e sinceri, ammette che suo fratello, ideologo fascista, con cui non aveva rapporti da anni, è rimasto fedele a sé stesso fino alla fine della sua vita. Un libro colto, profondo, dalla narrazione complessa e stratificata stilisticamente, che evoca il modello della prosa di Carlo Emilio Gadda, grazie al quale si ha la possibilità di riflettere sui grande avvenimenti storici del Novecento.

Pubblicato in: 
GN34 Anno VIII 14 luglio 2016
Scheda
Autore: 
Vittorio Sermonti
Titolo completo: 

Se avessero, Milano, Garzanti (La Biblioteca della Spiga), 2016. 224 pagine. € 18.00.