Inquieto Novecento. Alle radici della contemporaneità

Articolo di: 
Alberto Balducci
Emilio Vedova - Cristo nell'orto dei Getsemani

Questa mostra del Lucca Museum, aperta fino al 22 Giugno 2014, tesse per il visitatore un percorso volto a portare alla luce, come una reliquia, le svolte che hanno portato alla genesi della produzione artistica oggi contemporanea.

Il  percorso per s’incentra non tanto su movimenti o manifesti, quanto su ciò che infine è la materia prima di tutto: i singoli artisti in sé, le loro personali visioni e quel che da esse scaturisce.

Le domande fondamentali che scaturiscono a monte e a valle della mostra sono infatti: “l’arte contemporanea è vera arte?” e “abbiamo ancora bisogno della figura del critico?”. Non troveremo risposte in nero su bianco da parte dei preparatissimi curatori, Stefano Cecchetto e Maurizio Vanni, ma un apparato artistico capace di iniziare una preparazione del visitatore, per portarlo se non a dar delle risposte, quantomeno a comprendere le domande.

È chiaro che un’indagine dell’arte contemporanea su queste basi è un’indagine a ritroso, che è come dire al contrario, all’indietro: non si parte più prendendo un paradigma già assodato di un periodo/movimento ben compreso perché defunto (nessuno spirito artistico può essere digerito e catalogato a dovere finché è vivo e vegeto) per applicarlo alla produzione di un vivente, ma si osserva l’opera di quest’ultimo e ci si chiede quali passaggi espressivi del passato più o meno recente possano aver interagito col vissuto di quell’artista ad arrivare a questa sua espressione, qui ed ora.

La differenza potrà sembrar piccola, ma a nostro avviso è di ampio respiro. Particolarmente ampio il respiro che essa lascia fare all’artista del caso: non si ingabbia più l’uomo in un’etichetta preconfezionata, ma si osserva la sua espressione cercando di capirne le motivazioni. La si lascia esistere come manifestazione dell’artista; si cerca di comprendere i movimenti interni che hanno portato alla sua nascita.

La mostra in oggetto non è che un primo passo in questa direzione, un regalo che il Lu.C.C.A. ci fa (e si fa) per il suo quinto compleanno, ma è comunque un inizio per condurre il fruitore dell’arte di oggi a un apprezzamento senza preconcetti.

Possiamo cominciare dicendo che il titolo della mostra, su queste premesse, è quanto mai azzeccato: è un novecento turbolento, variegato, quello che emerge da questa disamina. Inquieto: si parte dal Nudo di bambina di Antonio Mancini (1895, la prima opera dell’ottocento che entra in questo museo) che sorge come bandiera dell’avvento dell’arte del secolo a venire, con la sua pittura tormentata, spartiacque tra XIX e XX secolo. Non dimentichiamo che il 1895 è anche l’anno di apertura della Biennale di Venezia.

È questa inquietudine che caratterizza lo spirito dell’uomo-artista, intesa non tanto come ansia d’assoluto quanto come forza prorompente che dall’interno naufraga verso i lidi sconosciuti del resto del mondo. I movimenti, i manifesti, le mostre, le pubblicazioni e i critici vengono molto dopo. Ciò è ben evidente nella mostra.

Quelle esposte non sono opere maggiori dei singoli artisti rappresentati, ma sono ben significative dal punto di vista in cui ci si pone, e ciascuno ha la propria parabola personale, da figliuol prodigo di se stesso: penso alla Natura morta con ananas e limoni (1932) di Filippo de Pisis, che dal figurativo classico naufraga verso un informale astratto nella stessa opera. Oppure allo Studio per stoffe (1917) di Depero, dove si può osservare che nel futurismo, in lui che futurista lo fu per davvero, traspare tutto, anche in quello che è anche “solo” uno studio marginale.

Queste sono vicende personali; lo storico dell’arte può indicarci un filo d’Arianna attraverso stili, tempi e luoghi, ma cosa può aggiungere su di esse un critico?

Altro caso ben documentato è quello di Emilio Vedova: di lui abbiamo in mostra Cristo nell’orto dei Getsemani (1939) e uno Studio di figura (1953) che ben illustrano una tormentata inquietudine interiore che si esprime attraverso quello che è il “nero di Tintoretto”. Anche La distruzione dei profeti (1933) di Afro Basaldella, così diversa dalle opere astratte cui ci ha abituati, rivela un esteso citazionismo classico.

Ma progredendo oltre e passando la metà del novecento i linguaggi si specializzano e si assottigliano. Abbiamo un grappolo di opere astratte dalla forte personalità (Mathieu, Accardi, Hartung, Rotella, Tancredi…), un maestoso Paesaggio di materiali misti di Roberto Crippa, e una delle superfici lunari di Turcato. Zoran Music riesce poi a infondere malinconica solitudine in una piccola tela con una figura equina (Cavalli, 1950).

Questi tasselli, arricchiti dai segnali di opere come il Comode avec miroir di Enrico Baj (la facciata di un mobile con uno specchio rotto sopra), dalla Cassa n. 48 (1966) di Guglielmo Achille Cavellini (che contiene resti di opere distrutte della Firenze post-alluvione del ’66, concepita prima che l’arte concettuale facesse il suo ingresso nella storia) o delle superfici plastiche di Castellani e di Bonalumi che infrangono (sulla scia di Fontana) il rapporto classico del pittore con la tela, ci portano verso nuove forme espressive, annullando gap generazionali all’apparenza vastissimi.

Abbiamo quindi Daniel Spoerri che fonde un mirabile memento mori con una critica al consumismo e alla società moderna in un minimale assemblaggio, e i progetti di Christo del 1970/1 relativi alle strade rivestite di tessuto e alla tenda per valle.

Queste espressioni calano l’artista di nuovo nella sua contemporaneità. Ciò non è scontato: la solita ormai trita e ritrita deriva degli “-ismi” ci ha abituato a considerare gli artisti come impiegati, de facto, di un particolare stile/movimento. Ma l’artista come tale non è uno di coloro ai quali si rivolgeva Duchamp dicendo, “non dipingono quadri, staccano assegni”, ma bensì un “portatore sano; segno inconsapevole dei suoi tempi” (nelle parole di Maurizio Vanni) e in quanto tale attivista ante-litteram, ribelle e anarchico a prescindere.

Ciò ci porta all’ultima sezione della mostra che funge da corollario a quanto illustrato finora: la contemporaneità nell’opera, ad esempio, di Cattelan e Hirst (di quest’ultimo abbiamo alcuni pregevoli teschi, tra cui una stampa 3D di For the love of god, l’opera battuta per 160 milioni). E qui vecchi interrogativi vestono nuovi abiti.

È certo che vi sono molti modi per entrare nella storia dell’arte, o più semplicemente nelle sale di un museo; e forse non è tanto importante (o interessante) discutere se Cattelan e Hirst siano solo dei provocatori; sicuramente sono segni tangibili dei loro tempi. È probabile che non sia un’opera dal costo folle o uno squalo sotto formaldeide l’aspetto determinante dell’opera di Hirst, quanto forse la vena che dimostra di avere in comune con Warhol (e che lo porta a una serie di provocazioni ben più filosofiche e sostanziali; ma anche alla capacità di creare un teschio porta CD che diviene opera di design fruibile senza difficoltà anche nella propria abitazione: The hours spin skull, 2009).

Alla stessa stregua, ci piace ricordare, tra le altre opere, Pink love di Jak Espi, una pantera rosa a dimensione umana, con un seno al silicone, un iPhone e tatuaggi tribali, che riassume benissimo una fetta rilevante dell’umanità contemporanea. E anche E se fosse un equilibrio… di Christian Balzano, una lamina dorata con un forellino che proietta l’immagine degli astanti all’interno di una cornice da quadro, portando il fruitore nel bel mezzo dell’opera.

In queste ultime opere si rende evidente come il ruolo dello spettatore sia fondamentale; o meglio: come l’interazione tra l’artista e lo spettatore sia una meta sempre più agognata.

Lo sguardo degli artisti di oggi è quello che sopravvive una volta che si sono placate le nubi del novecento inquieto, ed è lo stesso di cui parla Stefano Cecchetto nella conclusione del suo saggio introduttivo sul catalogo della mostra:

“ma placato il tumulto delle avanguardie, sembra che oggi l’artista sia ritornato ai temi dell’introspezione, a guardare dentro se stesso nell’intimità dello studio e gettato uno sguardo al cataclisma ancora in atto fuori dalla finestra e prestato un orecchio distratto alla babele dei linguaggi, si rimetta al lavoro come chi riprende una pausa dopo un’interruzione momentanea.”

Pubblicato in: 
GN19 Anno VI 20 marzo 2014
Scheda
Titolo completo: 

Inquieto Novecento.

Vedova, Vasarely, Christo, Cattelan, Hirst e la genesi del terzo millennio

A cura di Stefano Cecchetto e Maurizio Vanni

Dal 15 marzo – 22 giugno 2014

Lucca Center of Contemporary Art, Lucca

Sezioni della mostra

1) Il Novecento tra Figura e Figurazione
Afro Basaldella, Massimo Campigli, Filippo De Pisis, Fortunato Depero, Virgilio Guidi, Antonio Mancini, Gino Severini, Mario Sironi, Emilio Vedova

2) Segnali dalle Neo-Avanguardie
Carla Accardi, Enrico Baj, Agostino Bonalumi, Giuseppe Capogrossi, Enrico Castellani, Guglielmo Achille Cavellini, Roberto Crippa, Tano Festa, Pinot Gallizio, Hans Hartung, Asger Jorn, Georges Mathieu, Zoran Music, Tancredi Parmeggiani, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Jean Tinguely, Giulio Turcato, Victor Vasarely, Emilio Vedova

3) Verso una nuova poetica
Alighiero Boetti, Christo, Salvo, Daniel Spoerri

4) Azioni e riflessioni del terzo millennio
Maurizio Cattelan, Sandro Chia, Robert Combas, Democracia, Jak Espi, Regina José Galindo, Damien Hirst, Gianfranco Meggiato, Ciprian Muresan, Santiago Sierra.

Anno: 
2014