Leonard Cohen al Foro Italico tra Future e evergreen

Articolo di: 
Teo Orlando
Leonard Cohen

La grande musica e la grande poesia non invecchiano mai, o, per meglio dire, con Thomas S. Eliot,as we grow older/The world becomes stranger, the pattern more complicated/Of dead and living” (Man mano che invecchiamo/Il mondo diventa più strano, la trama più complicata/Di morti e di viviFour Quartets, "East Coker", V). Così, Leonard Cohen, anagraficamente più anziano di Bob Dylan (dato che esordì nella musica a 33 anni, dopo un’iniziale carriera, peraltro mai dismessa, di poeta e narratore), con i suoi 78 anni compiuti rappresenta l’epitome della canzone d’autore ma anche il suo futuro, come testimoniano gli innumerevoli omaggi e l’incredibile proliferare di tributi e cover che le sue canzoni hanno prodotto. Il concerto che ha tenuto il 7 luglio 2013 nella venue romana della Centrale del tennis del Foro Italico rappresenta in qualche modo la consacrazione della sua carriera sulle scene italiane.

Si presenta con un completo nero impeccabile e con un cappello stile borsalino calato sulla fronte, accompagnato da sette polistrumentisti e tre coriste, le due Webb Sisters e Sharon Robinson, sotto la sapiente direzione del maestro orchestratore, il bassista Roscoe Beck, nello scenario romano del Foro Italico, a cinque anni esatti di distanza dal precedente concerto che lo vide commuovere il pubblico della Cavea dell’Auditorium Parco della Musica.

Anche questa volta, con una voce profondissima resa ancora più intensa dal trascorrere degli anni, esordisce con "Dance me to the End of Love", dal nono album Various Positions del 1984. Il verso “Dance me to your beauty with a burning violin” (danzami fino alla tua bellezza con un violino ardente) richiama metafore poetiche che affondano le loro radici nella poesia francese (si pensi ai “sanglots longs des violons de l'automne” di Paul Verlaine). Il verso seguente rimanda invece a un intersecarsi di simboli biblici che evocano le radici profondamente ebraiche dell’autore: ”Lift me like an olive branch/and be my homeward dove” (sollevami come un ramoscello d’ulivo e sii la colomba che mi riconduce a casa). Subito dopo subentrano però i costumi lascivi e lussuriosi dell’antica Babilonia: “Let me feel you moving/like they do in Babylon” (Fammi sentire che ti muovi/come fanno a Babilonia): in qualche modo, la corporeità fa la sua irruzione e non ci fa dimenticare come per Cohen la dimensione relazionale che congiunge l’essere più profondo delle persone è legata al soma, al corpo inteso come fusione perfetta di materia e psiche, come insegnava già Arthur Schopenhauer.

Il secondo brano è il sorprendente "The Future", dall’album eponimo, così gravido di significati privati, politici e metastorici insieme, nel quale la voce cantante prefigura un avvenire apocalittico, dove ogni anima sarà sottomessa a un controllo assoluto e dove risorgerà il muro di Berlino o ci sarà una nuova Hiroshima ("Give me back my broken night/my mirrored room, my secret life/It’s lonely here,/there’s no one left to torture/Give me absolute control/over every living soul" – Ridammi la mia notte interrotta/la mia stanza di specchi, la mia vita segreta/È un posto solitario, questo,/non c’è rimasto nessuno da torturare/Dammi il controllo assoluto/su ogni anima viva). Segue l’antica ed emozionante "Bird on the Wire" del 1969, oggetto di mitiche cover (ma a sua volta ispirata a “Turn Me On” del cantautore country John D. Loudermilk), tra cui quelle di Joe Cocker e Johnny Cash, mentre Kris Kristofferson fece sapere che avrebbe fatto incidere i primi versi della canzone sulla sua tomba (al che Cohen rispose che si sarebbe offeso se non l’avesse fatto): “Like a bird on the wire/Like a drunk in a midnight choir/I have tried in my way to be free” (Come un uccello sul filo/Come un ubriaco in un coro di mezzanotte/Ho cercato a modo mio di essere libero).

La ritmata "Everybody Knows" ci fa scoprire un Cohen più rock, a cui la band comincia energicamente a fare da supporto. Gli strumentisti sono tutti notevolissimi ed estremamente versatili, a cominciare da Alexandru Bublitchi, il violinista tzigano-moldavo che sostituisce in questa occasione il sassofonista Dino Soldo e che evoca irresistibilmente lo stile di Alexander Balanescu, fino allo straordinario Neil Larsen, tastierista scandinavo naturalizzato americano, che si serve di un organo Hammond tale da riportarci ai mitici anni della nascita del progressive. Per non parlare dello spagnolo Javier Mas, assolutamente a suo agio con alcuni strumenti a corda di origine iberica, come il laud e la bandurria, con i quali dà vita ad alcuni mirabili assoli, che gli meritano l’omaggio rispettoso dello stesso Cohen, il quale si toglie più volte il cappello in segno di ammirazione.

In "Who by Fire" è proprio Javier Mas ad introdurre una specie di suite di flamenco che precede il pezzo, cantato con solenne gravità. Dall’ultimo disco, Old Ideas, provengono quattro brani, tra cui la successiva "The Darkness", intrisa di un pessimismo autoindulgente ("I caught the darkness,/It was drinking from your cup/I caught the darkness /Drinking from your cup./I said: is this contagious?/You said: just drink it up" -  Ho catturato l'oscurità,/Beveva dalla tua tazza./Ho catturato l'oscurità,/Bevendo dalla tua tazza./Ho detto: è contagioso?/Tu hai detto "bevi e basta").

In "Amen" Cohen cita disparate fonti ebraiche e si autocita con dissimulata civetteria ("Tell me again/When the filth of the butcher/Is washed in the blood of the lamb" - Dimmi ancora quando il sudiciume del macellaio/È pulito col sangue dell'agnello: questi versi rimandano alla vecchia canzone "The Butcher", contenuta in Songs from a Room, album del lontano 1969). “Come Healing” e “Lover Lover Lover”, con assoli neoromantici di violino e organo Hammond, intrisi di lamentazioni amorose, preparano l’esecuzione oltremodo intensa di “Anthem”: siamo in presenza di un vero inno religioso che comincia con un topos tipico della lirica inglese (ripreso anche da Peter Hammill in "The Birds"), ossia gli uccelli quasi personificati che cantano e formulano per così dire degli apoftegmi sentenziosi, come anche per alcuni versi in "The Raven" di Edgar Allan Poe: “The birds they sang/at the break of day/Start again/I heard them say/Don't dwell on what/has passed away/or what is yet to be”. - Gli uccelli cantavano/Allo spuntar del giorno/Ricomincia,/Li udii dire,/Non soffermarti su ciò/Che è passato/O ciò che ancora deve essere.

Dopo quindici minuti di pausa, la seconda parte del concerto si avvia con la leggendaria "Suzanne" (forse una delle canzoni che ha avuto più cover in assoluto, a partire da quella italiana di Fabrizio De André, per continuare con quelle di Judy Collins, Joan Baez, Peter Gabriel, Nick Cave, Tori Amos e perfino dei Tangerine Dream. Oltre che adattata e stravolta dai Current 93 di David Tibet con “A Lament For My Suzanne”). Segue un’inattesa "Chelsea Hotel #2", dedicata alla relazione che Cohen ebbe con Janis Joplin, con alcuni versi indimenticabili (“You told me again you preferred handsome men/but for me you would make an exception./And clenching your fist for the ones like us/who are oppressed by the figures of beauty,/you fixed yourself, you said, "Well never mind,/we are ugly but we have the music”. - Mi dicevi ancora una volta che preferivi uomini belli,/ma per me avresti fatto un'eccezione./E stringendo il pugno per quelli come noi/che sono oppressi dalle immagini della bellezza,/ti davi una sistemata e dicevi: «Beh, non importa,/siamo brutti, ma abbiamo la musica).

Sisters of Mercy”, dal primo e insuperabile album, contiene una gemma di meditazione esistenziale ("If your life is a leaf/that the seasons tear off and condemn/they will bind you with love/that is graceful and green as a stem". - Se la tua vita è una foglia/che le stagioni strappano via e condannano/loro ti attaccheranno con l'amore/che è leggiadro e verde come uno stelo), che ha reso la canzone così celebre da farle adottare il titolo come nome da una band new wave con venature gotiche.

Il pubblico finora composto e quasi silenzioso si anima improvvisamente quando risuonano i primi accordi di “The Partisan”, canzone leggendaria, ritmata dal contrabbasso di Beck e da Larsen alla fisarmonica. Il testo fu scritto in esilio a Londra nel 1943 dai membri della Resistenza francese Anna Marly ed Emmanuel d'Astier de la Vigerie e poi riadattato da Hy Zaret e dallo stesso Cohen. Cantate in inglese e francese, le parole che evocano l’arrivo prossimo della libertà e l’anziana donna che viene uccisa dalle SS dopo aver dato rifugio ai partigiani non possono non commuovere ancora oggi. Sarebbe stata, tra l'altro, un'ottima colonna sonora per commentare le scene iniziali del film Inglourious Basterds di Quentin Tarantino.

La successiva balladAlexandra leaving” viene affidata da Cohen a Sharon Robinson, che ne è coautrice e che interpreta con sobrio virtuosismo.
Tocca poi a “I’m your man”, dove le tenui e vibranti meditazioni dei brani precedenti lasciano il passo a più diretti e coinvolgenti ritmi quasi da danza.
SI prosegue con "Hallelujah", una sorta di inno ebraico reso ancora più celebre dalle commoventi versioni dei due famosi colleghi Jeff Buckley e Bob Dylan; ancora una volta la voce di Cohen sembra sintonizzarsi con i segreti accordi di un’apparente trascendenza che cela la volontà di vivere propria del corpo umano. Protagonista è qui la donna che lega l’uomo alla sedia di una cucina - “she tied you to a kitchen chair”; successivamente, dopo avergli tagliato i capelli e averlo sbalzato dal trono, gli fa proferire dalle labbra un Hallelujah - “and from your lips she drew the Hallelujah”. Siamo in presenza di una sorta di contraddizione per cui la donna si pone come l’epicentro dell’attrazione e della seduzione ma anche di una distruttività perniciosa e di un arbitrio capriccioso: solo attraverso l’allontanamento, l’abbandono di campo oppure la disfatta si può venire a capo della situazione. Il concerto sembra concludersi con “Take this Waltz”, ispirato a Federico García Lorca, di cui traduce liberamente la poesia “Pequeño vals vienés”.

In realtà, il concerto continua con sei lunghi bis, dove si alternano vecchi e nuovi capolavori. Si comincia con "So Long, Marianne"; si prosegue con "Going Home" e con la quasi marziale "First We Take Manhattan" (che venne addirittura “vietata” da alcune emittenti americane in conseguenza dell’attacco alle Twin Towers, dato che comincia con i seguenti versi, evidentemente del tutto fraintesi dall'ottusa censura radiofonica: "They sentenced me to twenty years of boredom/For trying to change the system from within/I'm coming now, I'm coming to reward them
/First we take Manhattan, then we take Berlin" - Mi hanno condannato a vent'anni di noia/per aver tentato di cambiare il sistema dall'interno/Adesso vengo, vengo a ricompensarli. Per prima prendiamo Manhattan, poi prendiamo Berlino
). Si passa poi alla malinconica e soffusa “Famous Blue Raincoat” (che De André tradusse in italiano con il titolo “La famosa volpe azzurra”, senza peraltro mai cantarla, ma affidandola a Ornella Vanoni; ha pure ispirato inconfessatamente “A Song for Douglas After He’s Dead” dei Current 93), tratta dal disco "nero" per eccellenza della canzone d'autore, quel Songs of Love and Hate che costituisce la matrice ineludibile di tutta la musica cupa, introspettiva e dark (e ci aspetteremmo prima o poi che una Diamanda Galás ne eseguisse delle cover, ad esempio della "suicidale" "Dress Rehearsal Rag" o della tenebrosissima "Avalanche", non a caso prima track del disco d'esordio di Nick Cave, i cui versi iniziali - Well I stepped into an avalanche,/it covered up my soul; Bene, ho messo il piede dentro una valanga,/essa ha occultato la mia anima - richiamano irresistibilmente i versi conclusivi di "Le Goût du néant" di Charles Baudelaire, Avalanche, veux-tu m'emporter dans ta chute? - Valanga, vuoi trascinarmi nella tua caduta?).

Subito dopo, occorre sottolineare che la struggente e flautata "If it be your will" viene eseguita dalla corista Hattie Webb delle Webb Sisters. La gamma variabile della voce di Hattie, che distilla inoltre suoni su un’arpa di piccole dimensioni, tinge di blu cromatico le note di questa sorta di commovente madrigale, di cui esiste una versione di rara intensità eseguita da Antony and the Johnsons.

Con "Closing Time" si conclude veramente il concerto di un menestrello che incanta dal fondo di una bottiglia proveniente dagli abissi di un mare di baci, “A Thousand Kisses Deep” vietati e negati, riprendendo a raccontare, tra tormenti e lamenti, “la profonda sofferenza che rende nobili e divide” (cfr. Friedrich Nietzsche, Nietzsche contra Wagner).

Pubblicato in: 
GN37 Anno V 23 luglio 2013
Scheda
Titolo completo: 

Leonard Cohen

Live a Roma, Foro Italico, Centrale del Tennis, 7 luglio 2013

Setlist:

First Set

Dance Me to the End of Love (Various Positions)
The Future (The Future)
Bird on the Wire (Songs from a Room)
Everybody Knows (I'm Your Man)
Who by Fire (New Skin for the Old Ceremony)
The Darkness (Old Ideas)
Amen (Old Ideas)
Come Healing (Old Ideas)
Lover Lover Lover (New Skin for the Old Ceremony)
Anthem (The Future)

Second Set

Suzanne (Songs of Leonard Cohen)
Chelsea Hotel #2 (New Skin for the Old Ceremony)
Sisters of Mercy (Songs of Leonard Cohen)
Heart with No Companion (Various Positions)
The Partisan (Songs from a Room)
Alexandra Leaving (performed by Sharon Robinson) (Ten New Songs)
I'm Your Man (I'm Your Man)
Hallelujah (Various Positions)
Take This Waltz (I'm Your Man)

Encore

So Long, Marianne (Songs of Leonard Cohen)
Going Home (Old Ideas)
First We Take Manhattan (I'm Your Man)

Encore 2

Famous Blue Raincoat (Songs of Love and Hate)
If It Be Your Will (performed by the Webb Sisters) (Various Positions)
Closing Time (The Future)
 

Anno: 
2013
Voto: 
10