L'illusione di Dio al Teatro Orologio. Una caotica stella danzante

Articolo di: 
Teo Orlando
L'illusione di Dio

Dal 17 al 28 marzo 2010 al Teatro dell’Orologio di Roma è andato in scena, per il secondo anno consecutivo, lo spettacolo L’illusione di Dio, sotto la direzione di Adriana Martino. Si tratta di una singolare trasposizione teatrale di testi filosofici e letterari di varia estrazione, ma tutti accomunati dal fatto di avere al proprio centro la critica alla religione (che per Karl Marx era il “presupposto di ogni critica”), non importa se da un punto di vista radicalmente ateo, oppure da agnostico o da credente non conformista.

Gli attori si sono calati volta per volta nei panni di celebri filosofi contemporanei o di grandi maestri del passato o di personaggi di famose opere letterarie, dando vita a uno spettacolo concettualmente densissimo, scandito da dialoghi serrati e quasi drammatici, dove però non sono il sentimento o la passione a prevalere, ma la lucida razionalità, l’argomentazione consequenziale e l’abilità retorica volta a tentare di persuadere l’interlocutore.

Siamo di fronte a una sorta di teatro raziocinante, che richiama vagamente una tradizione che va da Euripide a Pirandello, da Ibsen a Brecht. Per un pubblico che non sia attrezzato concettualmente, il rischio è quello della saturazione, anche perché le due ore della rappresentazione sono continue, senza alcun intervallo.

Così Pietro Bontempo interpreta l’ateo neoilluminista Paolo Flores D’Arcais ed Eugenio Scalfari, Bruno Viola il cristiano “eretico” Gianni Vattimo, Nicola D’Eramo l’ateo materialista Michel Onfray, Fabrizio Raggi veste i panni di Baruch Spinoza e Maurizio Ripetto quelli di Piergiorgio Odifreddi. Questi ultimi due attori si calano poi anche nella parte di Ivan e Alëša Karamazov, allorché il sipario si apre su un intermezzo dostoevskijano.

La scenografia scarna ed essenziale introduce uno spazio teatrale essenziale e minimalista, nel quale due grandi finestre illuminano fiocamente cinque tavoli dove siedono volta per volta i personaggi della pièce. Sullo sfondo campeggia la celebre citazione niezscheana: “bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante” (Così parlò Zarathustra, Prologo 5).

E non a caso l’incipit è il discorso dell’uomo folle che cerca Dio, di cui parla Nietzsche ne La gaia scienza:

«Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: "Cerco Dio! Cerco Dio!"? — E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. "Si è forse perduto?" disse uno. "Si è smarrito come un bambino"? fece un altro. "Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato"? gridavano e ridevano in una gran confusione. L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: "Dove se n’è andato Dio"? gridò "ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso — voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? [...] Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!».

Lo sgomento di fronte all’eterno precipitare in un luogo che è un non-luogo (“atopico”) dove non esiste più un alto e un basso, scandito dalla musica di Tom Waits con la sua caratteristica voce roca e polverosa, ci introduce al primo discorso di Paolo Flores D’Arcais, che esordisce senza mezzi termini: per lui la filosofia è critica di ogni religione e dovrebbe essere atea. Dopo Hume e Darwin siamo consapevoli che il sapere scientifico dovrebbe fornire tutte le possibili risposte sulla natura umana, sui limiti del pensiero, sulle sue origini biologiche e sull’assenza di un destino ultraterreno. Del resto, noi mortali siamo solo scimmie modificate e l’homo sapiens è solo uno dei generi umani.

Radicalmente, dalla pretesa di ogni religione di essere vera, Flores D’Arcais desume che sono tutte false. Del resto, come ricorda Odifreddi, uno degli insegnamenti che il cristianesimo ci ha lasciato è l’abitudine a considerare l’irrazionalità come una superiore verità, piuttosto che come una vergogna: e non a caso nella Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo la parola follia è ripetuta continuamente.

Da qui prende spunto Gianni Vattimo: l’antropologia culturale e lo strutturalismo hanno modificato l’immagine assolutista della ragione, per cui si dovrebbe non tanto asserire la falsità delle religioni, ma commisurare la verità di ogni religione alla validità delle diverse culture.

Prende poi la parola Michel Onfray, introdotto dalle sequenze minimaliste di Philip Glass: per lui non esiste un’unica ragione, ma varie ragioni attive nel disordine della razionalità occidentale. Ma per Onfray la ragione non è necessariamente lo strumento dell’ateismo: si pensi a Cartesio e a Kant, che si sforzano di provare l’esistenza di Dio con strumenti di tipo razionale, mentre Nietzsche e altri che svalutano la ragione non hanno alcuna fiducia nella possibilità di dimostrare che Dio esista. Per il filosofo francese è solo la coscienza della morte a far sì che l’uomo crei le religioni: la finitezza materiale viene esorcizzata tramite una rassicurante infinitezza immateriale.

Assistiamo poi a una sorta di intermezzo, dove si riproduce il dialogo tra Ivan e Alëša, due dei fratelli Karamazov del celebre romanzo di Dostoevskij, gravitante intorno ai classici interrogativi su Dio e l’immortalità. Ivan dubita dell’eterna armonia in cui tutti dovremo fonderci insieme. Ad essa contrappone la crudeltà umana, esemplificata dalla voluttà con cui i Turchi torturano i prigionieri: se il diavolo non esiste, allora l’ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Del resto, la conclusione implicita è che se Dio non esiste tutto è permesso, preludio al nichilismo teorizzato in quegli stessi anni da Nietzsche.

Si apre a questo punto un ulteriore sipario, dove compare il matematico Piergiorgio Odifreddi che sta sviluppando uno scritto quando viene interrotto da una voce: è il filosofo Baruch Spinoza, che gli appare quasi in un sogno, come in Porcile di Pasolini. Odifreddi ricorda la separazione tra Stato e Chiesa, anticipata da Spinoza che ci ha fatto ragionare sullo Stato di diritto come garanzia della libertà di pensiero. Nel Trattato teologico-politico Spinoza sostiene che entrambi i Testamenti non sono altro che la disciplina dell’obbedienza. Per Odifreddi Spinoza è stato radicale criticando tutte le religioni. Il filosofo replica sostenendo che il suo Dio non interviene negli affari umani e la filosofia non dev’essere al servizio del potere costituito.

Flores D’Arcais conclude rilevando una contraddizione nelle religioni, quella tra onnipotenza e giustizia infinita di Dio. Considerazione a cui fa da pendant il monologo finale di Scalfari, che si interroga, alla luce delle sue convinzioni profondamente laiche, sui motivi per cui Dio ha permesso il male ad Auschwitz, fino a far dire al filosofo Theodor W. Adorno che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”.

Pubblicato in: 
GN11 Anno II 3 aprile 2010
Scheda
Titolo completo: 

Teatro dell'Orologio - Sala Grande
Dal 17 al 28 marzo 2010

L’albero Teatro Canzone
presenta: L’ILLUSIONE DI DIO

su testi di Piergiorgio Odifreddi, Paolo Flores D’Arcais, Eugenio Scalfari, Gianni Vattimo, Fëdor Dostoevskij, Michel Onfray.
Regia e drammaturgia Adriana Martino
con Pietro Bontempo, Nicola D’Eramo, Fabrizio Raggi, Bruno Viola, Maurizio Repetto.
Scene e costumi di Anna Aglietto
Musiche a cura di Benedetto Ghiglia (tratte da Tom Waits e Philip Glass)

Riferimenti  Karl Marx  - Paolo Flores D’Arcais - Gianni Vattimo - Piergiorgio Odifreddi - Baruch Spinoza - Nietzsche - Darwin

Anno: 
2010
Voto: 
9.5