Museo in Trastevere. La fotografa di tutti ovvero Vivian Maier

Articolo di: 
Giulio de Martino
Copia di MAIER, Autoritratto, 1956..jpg

Al Museo di Roma in Trastevere, dal 17 marzo al 18 giugno 2017, si può visitare la mostra Vivian Maier. Una fotografa ritrovata. La Maier è una personalità sconosciuta nel mondo della fotografia: adoperò una Rolleiflex a due obiettivi e la pellicola 6x6, ma suscita un peculiare interesse nell’epoca della digitalizzazione. L’attesa retrospettiva è stata curata da Anne Morin e Alessandra Mauro, prodotta da diChroma Photography e realizzata dalla Fondazione FORMA per la Fotografia in collaborazione con Zètema Progetto Cultura. 

Vivian Dorothea Maier nacque il 1° febbraio del 1926 a New York, nel quartiere del Bronx, da padre austriaco e madre francese. Vivian visse la sua infanzia in Francia, insieme alla madre separata, presso un’amica di lei, la fotografa professionista Jeanne Bertrand. Tornò a New York nel 1938. Trovò lavoro come governante presso una famiglia di Southampton. Nel 1956, si traferì a Chicago proseguendo nel suo discreto mestiere di bambinaia. Dopo un'esistenza trascorsa in modeste condizioni economiche morì il 21 aprile 2009. Un'esistenza banale si potrebbe dire. Invece c’è un elemento eccezionale: tra le sue poche cose sono state ritrovate oltre centomila fotografie. Cominciò a fotografare intorno al 1950 e continuò sino alla fine degli anni Novanta. Bambinaia di mestiere, fotografa per insondabile necessità interiore: ha catturato con la Rolleiflex un numero impressionante di immagini

Nel 2007 John Maloof, un agente immobiliare, acquistò ad un’asta parte dell’archivio fotografico della Maier che era stato confiscato e messo in vendita a causa di un mancato pagamento. Partendo da quelle pellicole ritrovate, Maloof avrebbe rintracciato oltre 150.000 negativi e 3.000 stampe della Maier. Erano in un deposito: fra libri d’arte, ritagli di giornale, spillette elettorali e cianfrusaglie di ogni genere. Le fotografie non erano mai state esposte in pubblico e la maggior parte dei rullini non erano stati sviluppati: Vivian Maier aveva fotografato solo per sé stessa. Una passione solitaria e silenziosa. Di tanto materiale, la mostra al Museo di Trastevere presenta 120 fotografie in bianco e nero – realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta –, una piccola selezione di immagini a colori degli anni Settanta e alcuni filmati artigianali in super 8.

La critica fotografica è giunta alla conclusione che – al di là del tecnicismo e di ogni considerazione formalistica – ciò che conta nel definire l’interesse e il rilievo di un fotografo è soprattutto l’«oggetto» delle sue immagini. L’oggetto fotografico, non quello fisico. Per questo definire la Maier semplicemente come uno dei tanti dilettanti della «street photography» è riduttivo. L’argomento autentico delle foto della Maier è ben altro che la strada di New York o i suoi passanti.

Vivian Maier è stata una anticipatrice dello scattare compulsivo tipico dell’epoca attuale: quella della fotocamere digitali, degli smartphones con l’occhio meccanico ad altissima definizione e delle app che consentono di far circolare le nostre istantanee sul web. Va notato che quasi tutti i visitatori della mostra romana esibivano orgogliosi la propria macchina fotografica. Un segnale, un trofeo, una foglio di via. Come dire: è di noi che qui si tratta. La Maier è stata una delle prime donne ad adoperare la macchina fotografica come una protesi della sua mente e del suo corpo, come un supporto all’io nella folla degli altri, una scia della sua esistenza nella metropoli americana.

Vivian Maier ha ritratto le due città dove ha vissuto: New York e Chicago. Ha fotografato ogni cosa: dalle pozzanghere sui marciapiedi ai fiori nei giardini, dalle vetrine dei negozi alle donne nelle automobili, dagli ubriachi sui cartoni ai marinai per la strada, dai bagnanti di Coney Island agli operai sui ponteggi. Quello che l’ha attratta maggiormente sono stati, però, i riflessi, gli specchi, i vetri: tutto ciò che ricreava e deformava le immagini delle cose e delle persone. Dentro queste immagini ha cercato di collocare - sempre - anche se stessa. 

Studiando il suo corpus fotografico si nota la presenza di numerosi autoritratti: in quelle immagini l’io nascosto appare travisato da oggetto. Si badi: non si tratta di selfie  – allora impossibili – e neppure di semplici autoscatti: bensì di veri e propri «autoritratti» realizzati per il tramite di specchi e riflessi. In essi compare il suo sguardo austero, freddo: la sua lunga ombra incombe sull’oggetto della fotografia. La distanza fra il soggetto e l’oggetto, pure mescolati nella foto, reca con sé la storicità della Maier. Nel selfie soggetto e oggetto coincidono senza residui.

La Maier aveva la cura estetica di rendere complesse le sue immagini. Lo faceva adottando gli stratagemmi scoperti da ogni fotografo dilettante: fotografare i contrasti, fotografare chi guarda, cercare linee oblique, ritrarre soggetti doppi o in movimento, porre la camera al centro di più riflessi in modo da moltiplicare l’immagine fino alla «mise en abyme».

Nei suoi bianchi e nero sfilano vecchie signore in abiti vistosi, la comunità afroamericana, vecchi edifici in demolizione, i mezzi di trasporto pubblici. La città c’è, ma viene messa a distanza: la Maier la «vede» e quindi non ne viene fagocitata. Addirittura la macchina fotografica le consente di congedarsi da ogni cosa, di essere presente nell’assenza, di mettere in scena la sua immagine sfuggente. È il volto che non esiste: se non quando viene immobilizzato in una foto.

Pubblicato in: 
GN23 Anno IX 7 aprile 2017
Scheda
Titolo completo: 

Museo di Roma in Trastevere. Piazza di Sant’Egidio, 1/b  Roma
Vivian Maier. Una fotografa ritrovata.

17 marzo – 18 giugno 2017
A cura di:  Anne Morin e Alessandra Mauro

Orari:  da martedì a domenica ore 10-20, chiuso lunedì e 1° maggio