Napolitano. Il liceo classico e il futuro passato

Articolo di: 
Teo Orlando
Michele Napolitano

Negli ultimi anni si è acceso un vasto dibattito sul liceo classico italiano, una scuola ormai decisamente unica nel panorama europeo (e oserei dire mondiale), perché incentrata su un curriculum fortissimo scandito da alcune discipline, obbligatorie per un quinquennio (latino e greco) o per un triennio (filosofia e storia dell'arte), quale non si riscontra in nessun altro sistema scolastico del pianeta (in alcuni Länder tedeschi il greco antico viene insegnato, ma per un numero di studenti limitatissimo e senza obbligatorietà, salvo un paio di casi). Il dibattito è stato innescato soprattutto dalla circostanza per cui, dopo la riforma Gelmini del 2010, le iscrizioni al liceo classico sono calate dal 10,8 % al 6% degli iscritti totali alle scuole secondarie superiori. Campanello d'allarme che ha dato vita a numerosi convegni e incontri, culminati con il Processo al liceo classico svoltosi al Teatro Carignano di Torino il 14 novembre del 2014 e che ha portato alla sua "assoluzione", grazie anche alla difesa offertane da Umberto Eco.

Interviene ora sull'argomento, con un piccolo libro, elegante, agile e sottile, Michele Napolitano, professore di letteratura greca presso l'Università di Cassino. Il libro, intitolato Il liceo classico: qualche idea per il futuro, edito dalla Salerno, si prefigge di analizzare la crisi di quest'antica istituzione, cercando di valutare se sia possibile rendere il liceo classico più "appetibile" senza snaturarne le ragioni più profonde, anche da un punto di vista storico, e senza rinunciare al necessario rigore ed evitando di puntare al ribasso.

Napolitano di formazione è soprattutto un grecista, cosa che egli ricorda, a mo' di caveat, all'inizio del pamphlet (p. 8), quasi a volersi scusare per la decisione, peraltro obbligata date le appena 100 pagine del libro, di concentrarsi soprattutto sul suo ambito disciplinare, senza però trascurare, sia pur per cenni, riferimenti bibliografici e annotazioni preziose, tutte, o gran parte, delle altre materie che costituiscono il nucleo fondante di quel tipo di scuola. Il libro si divide in quattordici agili capitoletti, scanditi con rigore formale e armonia stilistica. Nel primo, intitolato Preludio, l'autore prende le mosse dal summenzionato processo torinese, per attestarsi su posizioni di cautela, osservando che il liceo classico non è ancora guarito dai suoi mali, ma forse sta attraversando un periodo di convalescenza che potrebbe portarlo, se efficacemente condotto, a una nuova vita.

Con sottile ironia (in riferimento al clima culturale degli anni '70 e alludendo a un film di Nanni Moretti, dopo aver citato anche Edoardo Bennato qualche pagina prima, allorché sottolinea come molti commentatori si siano radunati intorno "al capezzale di un malato molto grave"), il secondo capitolo si intitola Il dibattito sì, e ruota intorno alle numerose pubblicazioni che di recente sono uscite nelle librerie italiane sul latino, il greco e in generale la cultura classica (da La lingua geniale, sul greco antico, di Andrea Marcolongo, a Viva il latino, di Nicola Gardini, da L'ora di italiano di Luca Serianni a Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci). E oltre ai saggi vengono citati anche siti internet, pagine facebook e una singolare opera narrativa, Il canto della libertà. Una favola vera, di Sandra Bonsanti, dove compare un anziano e stravagante professore che insegna ai giovani "l'essenza dell'amore, della libertà e della vita", tenendo lezioni in una libreria su Omero, Saffo, Pindaro e Platone. Tutti segnali che inducono l'autore a un cauto, ma deciso ottimismo, perché sono per lui il segno che la crisi del liceo classico non sia da ricondurre al tramonto dell'interesse nei confronti delle discipline umanistiche, greco e latino in primis. 

Il terzo capitolo, intitolato Di un passo di Tocqueville, contiene un'elegante variazione sul tema di un'asserzione del grande storico francese, già ricordata a suo tempo da Luciano Canfora, secondo la quale la formazione umanistica, se generalizzata, produrrebbe certamente cittadini très-polis, ma anche très-dangereux (molto pericolosi), perché svilupperebbero un atteggiamento critico verso il modo di produzione delle moderne democrazie capitalistiche. Sostanzialmente, l'autore de La démocratie en Amerique temeva che dei cittadini cólti e formati ai valori dei Greci e dei Romani avrebbero potuto più facilmente contestare il sistema di valori fondato sull'industriosa attività degli altri cittadini (e del resto, non erano i rivoluzionari francesi cresciuti nel culto di figure come Bruto o i fratelli Gracchi?). Napolitano però riconosce a Tocqueville il merito di aver individuato nella paideia umanistica, pericolosa da un punto di vista politico, l'antidoto migliore per rimediare all'appiattimento culturale tipico dei sistemi democratici, con argomenti molto più pacati e meditati di quelli usati recentemente da Diego Fusaro, benché anch'essi conditi da una certa diffidenza verso il cosiddetto "neoliberismo globalizzato".

Nel quarto capitolo, "Tardi e scadenti epigoni". E due parole sugli intellettuali, si osserva come oggi le riforme scolastiche siano il frutto di decisioni improvvide e improvvisate degli epigoni scadenti di tradizioni politiche nobili e alte, come ad esempio quella liberalsocialista e azionista. Napolitano cita giustamente quello che, a mio modesto avviso, rimane tuttora il libro più innovativo e rivoluzionario scritto sulla scuola italiana, ossia Scuola sotto inchiesta, che raccoglie gli articoli pubblicati sul Mondo di Pannunzio dal filosofo Guido Calogero negli anni '50 e '60: già allora Calogero si scagliava contro la rigidità tutta italiana dei piani di studio universitari, contro il panlatinismo imperversante in certi ambienti, contro la fallimentarità dello studio puramente grammaticalistico del latino e del greco: ma i suoi appelli, ben più dirompenti di quelli dei sessantottini e non certo così stolidamente demagogici, rimasero vox clamantis in deserto. 

Con molto acume e spirito anticonformista, Napolitano prende in esame alcune ricorrenti lamentele sullo "scrivere male" delle nuove generazioni, diffidando da un lato di certi appelli fuori tempo massimo, e dall'altro lato invitando a riflettere sul fatto che non sempre alla pretesa (ma spesso niente affatto tale) scrittura approssimativa delle nuove generazioni corrispondano contenuti di cattiva qualità.  E diffida anche, giustamente, dei tentativi di liquidare sommariamente personaggi come Don Milani o perfino il compianto Tullio De Mauro, in nome di categorie di lettura del tutto superate.

Nel quinto capitolo, Studenti e ribelli, Napolitano prende spunto da un'osservazione di Paola Mastrocola, insegnante e scrittice, la quale osserva che chi studia è sempre un "ribelle", anche se silenzioso, e invita a non elaborare però strategie di contrapposizione frontale con il mondo. E nel sesto capitolo, Di una questione mal posta, individua lucidamente l'esigenza di sottolineare sì che una formazione umanistica garantisce pensiero critico, flessibilità mentale, vivacità di sguardo, creatività e fantasia, ma senza compiacersi nel predicare la cosiddetta "inutilità del latino e del greco" in quanto contrapposta alla pretesa maggiore utilità delle scienze naturali o dell'economia (notevole anche il riferimento al fatto che la politica statunitense degli ultimi decenni è in gran parte il frutto, per quanto negativo, del magistero degli allievi del filosofo Leo Strauss, imbevuti come pochi di cultura classica).

Di pari e simile tono sono i successivi capitoli, dal settimo al nono, in cui l'autore sottolinea l'esigenza di studiare i classici perché il presente basta sempre meno a sé stesso e non bisogna avvolgersi in quello che, con un efficace anglicismo, chiama short-termism, ossia il pensiero a breve termine: bisogna tornare alla longue durée, come sottolineano gli storici Armitage e Guldi.

Molto efficace, alla fine del capitolo nono (Memoria, tradizione, radici) è l'invettiva contro chi giustifica l'insegnamento del latino e del greco con argomenti utilitaristici: l'autore non pensa che si debba corroborare tale difesa con argomentazioni utilitarie, tra le quali rientrava un tempo l'idea che lil latino fosse lingua sommamente logica e che l'apprendimento del latino potesse sostituire quello della logica stricto sensu. Tesi che poggia su un equivoco, ossia che esistano lingue naturali più "logiche" di altre, e tra queste particolarmente il latino. Già i logici medievali della scuola modista erano convinti del contrario, proprio perché si sforzarono di elaborare un linguaggio mentale perfetto basato certamente sul latino, ma esente dalle ambiguità di quello naturale. E perfino il grande classicista Giorgio Pasquali e il filosofo Guido Calogero non erano d'accordo. Per Napolitano, chi abbia a cuore le sorti del classico, dovrà dismettere "a un tempo nel modo più rigoroso possibile, il prima possibile, ogni argomento che insista sulla superiorità delle lingue e delle culture classiche, su considerazioni di ordine astrattamente valoriale, su prerogative di utilità pratica, in relazione, ad esempio, allo studio dell'italiano e all'apprendimento delle lingue straniere o alla comprensione delle lingue tecniche, sulle potenzialità formative in funzione dello sviluppo del ragionamento e delle capacità logiche, e così via. Dismettendo soprattutto, l'idea che il greco e il latino servano a formare l'uomo: un pregiudizio di marca schiettamente umanistica nel senso deteriore del termine, che le mostruosità prodotte dalle ideologie novecentesche del classicismo basterebbero a smontare nel modo più radicale e definitivo" (p. 43).

Napolitano, a proposito della fallacia delle argomentazioni che insistono, tuttora, sul latino come lingua 'logica' o 'razionale', si premura altresì di segnalare un vecchio articolo di Umberto Eco, Il latino come castigo, "che, uscito nel 1972, è ancora tra le cose più acute e divertenti che siano state scritte sull'argomento (lo si veda in Id., Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia italiana, Milano, Bompiani, 1973, pp. 78-80)".

Di rilievo è anche l'osservazione che è vano tentare di attualizzare a ogni costo i classici, individuando ad esempio in Saffo una campionessa ante litteram dei diritti Lgbt o in Alceo un partigiano della libertà contro il giogo della tirannide, se non altro perché si ignora così la "tremenda frattura di tradizione" (a tremendous breach of tradition) su cui spese belle pagine Virginia Woolf.

Su una cosa comunque Napolitano appare giustamente intransigente: sull'esigenza per cui, se di liceo classico si deve parlare, esso debba insegnare bene la lingua greca (e ovviamente anche quella latina), senza assecondare la perniciosa tendenza a far ricorso pressoché esclusivo a testi letti in traduzione. Ma con spirito critico e cauta apertura verso le nuove metodologie, da un lato deplora lo sterile grammaticalismo che andrà sostituito con un approccio induttivo più basato sui testi, e dall'altro guarda con curiosità al metodo Ørberg o metodo natura, che si basa sull'approccio diretto ai testi e sulla pratica attiva (anche orale) delle lingue antiche.

Divertente è una citazione in inglese che l’autore trae dalla rete a proposito della differenza tra l’apprendimento delle lingue antiche e di quelle moderne: “The difference between learning a modern language and an ancient language is that in first year French you learn “Where is the bathroom?” and “How do I get to the train station?” and in first year Attic Greek or Latin you learn “I have judged you worthy of death” and “The tyrant had everyone in the city killed.” La morale che ne trae l’autore è quella per cui occorrerebbe affiancare alle frasette stereotipate dei versionari testi diversi e più fedeli alla ricchezza della vita concreta degli antichi, anche nei manuali destinati ai principianti: una sticomitia tragica, passi delle commedie di Aristofane o brani dai dialoghi di Platone.

I capitoli finali del libro sono dedicati a un puntiglioso e analitico esame di come insegnare più efficacemente il greco ricorrendo anche alle iscrizioni, di come si potrebbe arricchire la prova dell'esame di maturità, partendo anche da un testo poetico e commentandolo, e di come si potrebbe potenziare l'insegnamento della storia antica. Alcune osservazioni sono troppo specialistiche perché se ne possa rendere conto in questa sede, ma sono comunque tutte dettate da grande equilibrio e da una dose cospicua di buon senso, anche quando si correrebbe il rischio di incursioni in campi troppo settoriali. 

Sapendo degli interessi musicali dell'autore, ci ha sorpreso la mancanza di riferimenti diretti alla possibilità di introdurre un insegnamento di storia della musica nel nostro liceo classico. Va però detto che io stesso sono diffidente verso un insegnamento che si ridurrebbe a pura erudizione musicale, se concepito come l'insegnamento di storia dell'arte. Laddove un insegnamento più serio e rigoroso, che preveda l'apprendimento di uno strumento e la lettura critica di una partitura (che miri cioè a quello che Theodor W. Adorno chiamava "l'ascolto strutturale", che consenta di percepire in modo pienamente adeguato la concreta logica musicale, da distinguere dall'ascolto superficiale delle persone dotate solo di Halbbildung, di una cultura reificata e massificata), sarebbe forse incompatibile con il carico di studio, già cospicuo, previsto oggi dai curricula ordinari. A meno di non pensare a licei classici con sezioni "plus" (con più ore di matematica, più lingue straniere o appunto musica, a scelta), riservate a chi voglia studiare di più, senza dismettere però il latino e il greco. In ogni caso, il libro di Napolitano delinea perfettamente un liceo classico come scuola del "futuro passato" (espressione mutuata sul tedesco vergangene Zukunft e sull'inglese future past, in uso presso filosofi della storia come Reinhart Koselleck), ossia una scuola in cui il futuro e il passato si possono ridislocare in relazione l'uno all'altro, senza dimenticare che anche il nostro presente è stato, forse, un futuro immaginato da uomini lungimiranti del passato.

Del resto, come sottolineò il grande compositore Gustav Mahler,  “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri". E, come ha osservato Hans-Georg Gadamer in Wahrheit und Methode, la conservazione della tradizione è un atto della ragione e della libertà non meno di quanto lo siano il sovvertimento e il rinnovamento: “Persino dove la vita si modifica in modo burrascoso, come nelle epoche di rivoluzione, nel preteso mutamento di tutte le cose si conserva del passato molto di più di quanto chiunque immagini, e si salda insieme al nuovo acquistando una rinnovata validità.” (Selbst wo das Leben sich sturmgleich verändert, wie in revolutionären Zeiten, bewahrt sich im vermeintlichen Wandel aller Dinge weit mehr vom Alten, als irgendeiner weiß, und schließt sich mit dem Neuen zu neuer Geltung zusammen).

Pubblicato in: 
GN36 Anno IX 7 luglio 2017
Scheda
Autore: 
Michele Napolitano
Titolo completo: 

Il liceo classico: qualche idea per il futuro, Roma, Salerno, 2017. Pp. 104. Euro 8,90.