Le Operette morali di Leopardi. La perenne infelicità umana. Parte seconda

Articolo di: 
Teo Orlando
Operette Morali

Il successivo Dialogo di un folletto e di uno gnomo riprende il tema (già accennato da Ercole e Atlante) della condanna delle teorie antropocentriche, aggiungendovi però una serrata critica del finalismo naturale: si tratta, come ha efficacemente scritto Walter Binni, della polemica “contro le concezioni superbe e presuntuose per le quali il mondo sarebbe fatto per l’uomo, non solo centro dell’universo, ma padrone di tutte le cose del mondo”.

Lo Gnomo, che abita negli abissi terrestri, mentre indaga sulle cause della scomparsa del genere umano, si imbatte in un Folletto (spirito dell’aria, simile all’Ariel della Tempesta di William Shakespeare) a cui manifesta la sua preoccupazione per l’estinzione del genere umano, che tra gli effetti indesiderati avrebbe anche quello dell'impossibilità di misurare il tempo.

Il Folletto concorda solo in parte, suggerendo implicitamente un’esistenza oggettiva del tempo indipendente da ogni misurazione, e sottolineando il fatto che l’uomo non è il centro dell’universo; lo Gnomo incalza di par suo, osservando che “le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare” anche dopo la scomparsa dell’uomo. Del resto, gli uomini se potessero rinascere si renderebbero conto quale vana illusione sia la credenza per cui “il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli”.

Con ironia sferzante, lo Gnomo allude beffardo all’ipotesi per cui anche “le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini”. Non diversamente Baruch Spinoza, nell’Appendice alla prima parte dell’Ethica ordine geometrico demonstrata, sottopone a una critica devastante il pregiudizio per cui “comunemente gli uomini suppongono che agiscano per un fine – al pari di loro – anche tutte quante le cose naturali, ed asseriscono anzi come indubbio che Dio stesso diriga ogni cosa a un determinato fine”.

Da qui all’idea che ogni cosa naturale sia considerata dagli uomini come un mezzo per il proprio utile il passo è breve. Senza il sarcasmo di Leopardi, ma con non minore forza espressiva, anche Spinoza stigmatizza la tesi secondo cui gli uomini, partendo ad esempio dalla credenza per cui il sole esiste per dar loro la luce o il mare per nutrire dei pesci di cui alimentarsi, ritengono che ogni ente della natura sia un mezzo per il proprio utile (“hinc factum ut omnia naturalia tanquam ad suum utile media considerent”).

L’Elogio degli uccelli, recitato con afflato lirico da Maurizio Donadoni (seppure solo per una parte limitata), individua nella caratteristica del riso il tratto comune a uccelli ed esseri umani:  qui si avverte una lontana eco di dispute antiche e medievali sulla facoltà del ridere come proprium degli esseri umani (il proprium è una caratteristica che definisce certi tipi di esseri, ma meno forte della definizione essenziale: ad esempio l’essere razionale definisce l’essenza dell’uomo, l’essere ridens è invece un proprium; come dice Umberto Eco, “è quella caratteristica che si aggiunge alla definizione per genere e specie per indicare meglio e in modo inconfondibile certi membri diuna specie”). 

Degli uccelli come anche di altri animali viene lodato il fatto che non sono sottoposti alla noia: in fondo, la loro condizione ricorda quella della greggia del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che non prova mai tedio ("Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,/Tu se' queta e contenta;/E gran parte dell'anno/Senza noia consumi in quello stato").

Osservazioni poi riprese da Friedrich Nietzsche, con esplicito riferimento a Leopardi, nella Seconda delle Considerazioni inattuali: “Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa che cosa sia ieri, che cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall'alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante, e perciò né triste né tediato” (Sull’utilità e il danno della storia per la vita).

Dopo il breve Dialogo di Malambruno e di Farfarello, incentrato sul piacere e sulla sua necessaria commistione con il dispiacere (perché l’infinità di piacere, come soddisfazione di un desiderio illimitato, è impossibile), si passa al Dialogo della natura e di un’anima, dove viene abbozzata la teoria della predestinata infelicità del poeta (e due grandi poeti, Camões e Milton, vengono citati come paradigmatici).

Con grande espressività e presenza scenica viene rappresentato il successivo Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, con Renato Carpentieri nella parte di Tasso e Giovanni Ludeno in quella del Genio. Il dialogo è ambientato nel manicomio ferrarese di Sant’Anna dove il Tasso è detenuto e si intrattiene con il suo “genio familiare”, una sorta di analogon del δαιμόνιον socratico, con il quale il poeta era solito conversare, secondo un’osservazione di Ludovico Antonio Muratori (è come se fosse una specie di deuteragonista del Tasso, uno sdoppiamento interiore che rappresenta una sua più lucida consapevolezza).

Il dialogo riprende le considerazioni leopardiane sull’irrealtà del piacere e sull’inevitabile tedio perenne che affligge gli esseri umani. Ma queste considerazioni sono temperate dalla consolazione offerta dall’illusione e dal sogno: “Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai”.  Il Tasso di Leopardi non è molto dissimile da quello di Goethe, mentre la condizione dell’uomo che, sognando, si avvicina all’assoluto sembra riecheggiare Friedrich Hölderlin: “Un Dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando pensa” [O, ein Gott ist der Mensch, wenn er träumt, ein Bettler, wenn er nachdenkt!]  (Iperione, I, 1 ). Leopardi dice qualcosa di simile in riferimento alla donna amata dal Tasso: “Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.”

Il Dialogo di Timandro e di Eleandro vede la contrapposizione tra il filosofo Timandro (dal greco τιμάω, onoro, e ἀνήρ, uomo), ottimista e progressista, e il pessimista Eleandro (dal greco ἐλεέω, nutro pietà, e ἀνήρ uomo). Il secondo espone le sue idee sull’imperfezione e infelicità dell’uomo, ma non manca di rivolgersi, con un misto di nostalgia e disillusione, verso “quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo”.

È da passi come questo che Francesco De Sanctis prese spunto, nel celebre dialogo Schopenhauer e Leopardi, per sostenere che Leopardi “non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtú, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. E parimenti il grande filosofo Cesare Luporini, uno dei più acuti interpreti di Leopardi nel secondo dopoguerra, inaugurò un approccio epocale alla filosofia del poeta di Recanati sostenendo che in lui pessimismo e razionalismo si congiungono perfettamente in una “costruttiva spinta verso il futuro” (Leopardi progressivo).

Il successivo Dialogo della Natura e di un Islandese è una delle più celebri tra le Operette, anche a causa di un’antologizzazione scolastica un po’ di maniera. Il fulcro del dialogo è costituito dall’idea della spietatezza della Natura (che si presenta come una donna seduta in terra, con il busto ritto e gli occhi e i capelli nerissimi, simile al tipo femminile esplorato da Mario Praz nel capitolo intitolato, sulla scorta di John Keats, “La belle dame sans merci”, ne La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica), orientata esclusivamente verso la conservazione della specie – attraverso la distruzione e la trasformazione continua della materia, come negli illuministi La Mettrie, Diderot, d’Holbach ed Helvétius - e non dei singoli esseri che la compongono: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. […] E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”.

Temi che poi ritorneranno in alcuni canti, come il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo. E verso la fine il dialogo assume toni che oggi chiameremmo “proto-esistenzialisti”, come nella protesta finale, in cui l’Islandese domanda alla Natura: “t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? O mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia?” Interrogativi che richiamano la “gettatezza” (Geworfenheit)  di cui parla Martin Heidegger, ossia la la condizione dell’uomo che è “gettato” nell’esistenza mondana, senza che sappia per quale motivo è stato destinato a tale condizione.

La chiusa si presta particolarmente alla teatralizzazione del dialogo, con il suo accenno al sopravvenire dei due leoni che, macerati dall’inedia, “appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese”.

Con il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, infine, assistiamo a uno dei momenti più toccanti di tutta la rappresentazione. Il coro iniziale del dialogo viene offerto in una versione musicata da Giorgio Battistelli, eseguita dal Coro del Teatro di San Carlo (ma già Goffredo Petrassi nel 1941 aveva proposto una sua composizione per coro sul testo leopardiano).

Leopardi svolge una meditazione sulla morte, insistendo sul momento del trapasso con un’apparente freddezza sensista e fisiologica (verosimilmente mutuata da Buffon; tra l’altro, nel dialogo si menzionano i vampiri come esempio di defunti destinati alla dannazione che succhiano il sangue delle loro vittime). Paradossalmente, la morte viene quasi assimilata al piacere, dato che “il morire, come l’addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi”. E del resto, il piacere non è da lui considerato sempre “cosa viva”, al punto da fargli ritenere che la maggior parte dei diletti umani consistano in qualche forma di languidezza, con il presupposto che i sensi umani siano capaci di piacere anche all’approssimarsi della loro estinzione.

E per citare i versi immortali del coro:

Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de’ vivi al pensiero
L’ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però ch’esser beato
Nega ai mortali e nega a’ morti il fato.

Scheda
Titolo completo: 

Teatro di Roma - Teatro Argentina

3-15 maggio 2011

Operette morali
di Giacomo Leopardi
adattamento e regia Mario Martone

scene Mimmo Paladino
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suoni Hubert Westkemper
dramaturg Ippolita di Majo
aiuto regia Paola Rota
scenografo collaboratore Nicolas Bovey
Con (in ordine alfabetico): Renato Carpentieri, Marco Cavicchioli, Roberto De Francesco, Maurizio Donadoni, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis, Franca Penone, Barbara Valmorin
Produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino

Anno: 
2011
Voto: 
10