Piera degli Esposti legge Joyce. Il flusso di coscienza dell'universo

Articolo di: 
Teo Orlando
Piera degli Esposti

Lunedì 13 dicembre 2010 il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica è stato teatro di un singolare evento: la lettura di alcuni brani tratti dal monologo finale di Molly Bloom nell’Ulisse di James Joyce, recitati mirabilmente dall’attrice Piera Degli Esposti e intervallati da un dottissimo commento affidato al poeta Valerio Magrelli e al filologo comparatista Piero Boitani.

Si parte da una brevissima presentazione biografica del grande scrittore irlandese, nato in un sobborgo di Dublino il 2 febbraio 1882 da una famiglia di profonda fede cattolica e morto in volontario esilio a Zurigo il 13 gennaio 1941. Si sottolinea che l’educazione giovanile di Joyce si svolse a Dublino, capoluogo di un’Irlanda fino alla prima guerra mondiale considerata dagli inglesi quasi una colonia, con tanto di esercito inglese occupante. Si laurea nel 1902 allo University College, fondato dal cardinale John Henry Newman. Fugge nel 1905 dall’Irlanda, come Samuel Beckett, recandosi a Trieste (dove conosce Italo Svevo) che poi lascia nel 1914 in quanto “inglese” e quindi cittadino di una potenza nemica dell’impero asburgico.

Le sue peregrinazioni lo portano quindi prima a Parigi e infine in Svizzera. L’Irlanda rimane comunque al centro della sua attenzione, come testimoniano i racconti compresi nella raccolta Dubliners (1914): l’Irlanda, e Dublino in particolare, sono il ritratto di “quella paralisi o emiplegia (deficit motorio che interessa un emilato, N.d.C.) che molti considerano una città”. Questo è particolarmente evidente nella scena finale del racconto The Dead: la neve in una sorta di crescendo cade su Dublino, l’Irlanda e tutto l’universo, su tutti i vivi e i morti (“upon all the living and the dead”). Similmente anche il personaggio di Stephen Dedalus, che Joyce introdurrà nelle successive opere narrative, appartiene all’intero universo, quasi un microcosmo che riflette in sé il macrocosmo.

Magrelli sottolinea che per leggere il capolavoro di Joyce, l’Ulysses, concepito a Roma durante un soggiorno del 1906 e pubblicato il 2 febbraio 1922 a Parigi dall’editore Shakespeare & Company (il giorno del compleanno di Joyce e lo stesso anno in cui comparve la Waste Land di Thomas S. Eliot), sono necessarie delle istruzioni per l’uso. E non a caso l’edizione italiana negli Oscar Mondadori è corredata da un volumetto di commento, a cura di Giorgio Melchiori e Giulio de Angelis.

In effetti, vale per l’Ulisse quello che il poeta russo Osip Mandel'štam diceva della Divina Commedia: “La Commedia è una nave che esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie”. Questa osservazione allude al fatto che il commento esplicativo è parte integrante del testo. Nel senso che prima di votarsi al romanzo è opportuno leggere il manuale che lo spiega e lo rischiara. Certo, l’Ulisse non è il gorgo magmatico che sarà poi l’opera ultima del grande scrittore irlandese, il Finnegans Wake, ma è comunque arduo da decodificare senza una guida sicura e accurata.

Comincia poi la lettura di Piera degli Esposti, che riesce a rendere con mirabile espressività lo stream of consciousness (flusso di coscienza - concetto risalente al grande filosofo americano William James, fratello del romanziere Henry, e introdotto in letteratura dalla scrittrice May Sinclair) del monologo interiore di Molly Bloom, irto di riferimenti alla sfera sessuale e con una sintassi desultoria (ovvero discontinua) e scardinata che sfida ogni tentativo di traduzione. Del resto, l’attrice bolognese non è nuova a questa impresa, dato che aveva proposto il monologo joyciano già nel 1979 al Teatro Duomo di Milano, con la regia di Ida Bassignano, suscitando l’ammirazione di Eduardo De Filippo.

Non si tratta peraltro, come nel flusso di coscienza indicato nei Principles of Psychology di William James, di una mera registrazione meccanica di quello che accade nella testa di Molly o di altri personaggi del romanzo. Joyce cerca piuttosto di cogliere dei lampi intuitivi che poi dispone a mosaico, disegnando quasi una mente modulare (per usare un’espressione del filosofo Jerry Fodor), in cui però l’elemento fonico della lingua ha la meglio su quello semantico. Il che rende difficile, come osservò Melchiori, citare le pagine dell’Ulisse, che è costruito piuttosto come una somma di episodi che come una narrazione in cui le pagine si susseguono secondo il normale andamento diacronico. Il monologo interiore si conclude con tre yes alla fine, che denotano la piena accettazione della vita e dell'universo.

Piero Boitani, dal canto suo, ha sottolineato che Molly Bloom si presenta con due aspetti complementari: da un lato è quasi il simbolo figurale della moglie di Joyce, Nora Barnacle, conosciuta nel 1904 ma sposata solo nel 1931. Dall’altra parte è la coprotagonista della narrazione. Negli schemi mandati agli amici Carlo Linati e Valéry Larbaud (quest'ultimo poi ripubblicato da un altro amico, Stuart Gilbert), Joyce parla esplicitamente di riscrittura dell’Odissea di Omero. Così Molly, nata a Gibilterra e moglie dell’ebreo irlandese Leopold Bloom, diventa una sorta di Penelope infedele. Bloom ovviamente rappresenta Ulisse. Il deuteragonista Stephen Dedalus (che ha lo stesso nome del protagonista del Portrait of an Artist as a Young Man), che Bloom incontra in un bordello alle 2 di notte, dopo essere uscito per comprare dei rognoncini, è il corrispettivo di Telemaco. Rientrato in casa vi trova l’infedelissima moglie Molly reduce da un intero pomeriggio di amore clandestino (episodio parallelo a quello di Circe nell'Odissea.

E come nell’Odissea, i primi tre episodi sono dedicati alla Telemachia: analogamente al poema omerico, dove Ulisse entra solo al quinto libro, Leopold Bloom fa la sua apparizione solo nel quarto capitolo. Compare prima il poeta e letterato Stephen Dedalus in una torre in riva al mare nella spiaggia di Dublino. Insieme a lui troviamo lo studente di medicina Buck Mulligan, che intona in modo quasi blasfemo l’Introibo ad altare Dei, trasformandolo in una sorta di parodia della messa tridentina, in cui le due radici, quella ebraica e quella cristiana, si intrecciano, con evidenti richiami a San Tommaso;  questo è il frutto  dell’educazione da Joyce ricevuta nei collegi gesuiti, più volte richiamata nel Portrait of  an Artist as a Young Man, una sorta di mascherata autobiografia: non a caso una predica sull’inferno in questo libro viene tenuta da un gesuita, con tratti che ricordano anche l’Inferno dantesco, di cui Joyce era un grande cultore.

Anche il parallelo tra l’Irlanda e il popolo di Israele non è casuale: nel romanzo si spiega che il padre di Bloom era un ebreo ungherese e Joyce non manca di alludere al fatto che Ulisse ha tratti in comune con la figura dell’ebreo errante. Anche se Joyce non ha voluto includere i riferimenti ai vari episodi dell’Odissea nei titoli dei vari capitoli, appare comunque evidente che egli ha ripetuto il disegno centripeto del poema omerico. Nonostante le peregrinazioni di Ulisse in giro per il mediterraneo, non bisogna dimenticare che il centro dell’Odissea è Itaca. Joyce, più radicalmente, prende Dublino, città relativamente piccola ma con una grandissima baia, e la usa come scenario esclusivo. Non a caso il romanzo comincia con Stephen Dedalus nel promontorio a sud e termina con Molly nel promontorio a Nord.

Nel secondo brano letto dall’attrice fa capolino un’altra colonia inglese, Gibilterra, da dove viene Molly: Magrelli sottolinea l’analogia con l’Irlanda, anch’essa considerata come una colonia inglese. E non a caso Joyce, scrivendo in inglese, sottoporrà la lingua di Shakespeare, quasi l’idioma degli usurpatori, a un trattamento morfologico, sintattico e semantico, culminato nel Finnegans Wake, che denota come lui la padroneggiasse meglio dei “padroni”. E giustamente Svevo sottolineava che l’Ulisse non è un libro per un lettore sbadato.

Boitani ha peraltro messo in risalto che nel 1918 Joyce diede due definizioni del suo romanzo, un vero poema eroicomico in prosa per riprendere la formula di Henry Fielding. La prima definizione vede nell’Ulisse un'Odissea moderna, che si svolge il 16 giugno, data dell’incontro di Joyce con la moglie e oggi diventato il Bloomsday. La seconda definizione vi ravvisa l’epica del corpo umano, secondo la carnevalizzazione del sacro cara a Michail Bachtin.

San Tommaso viene rovesciato: alla Summa theologica si sostituisce la Summa anthropologica. La trinità di Padre, Figlio e Spirito Santo (o Maria) viene sostituita con quella di Bloom, Dedalus e Molly. Ciò si ravvisa anche nel ritmo ternario (cfr. La Divina Commedia di Dante Alighieri): i 18 capitoli contro i 24 libri dell’Odissea, sono sempre ottenuti come multipli del numero tre. Secondo Umberto Eco, sono le idee vecchie ereditate dalla tradizione culturale che permettono a Joyce di far scaturire nuovi nessi grazie ad accostamenti significativi. L’adozione dello schema trinitario diventa così l’uso di uno schema teologico, a cui peraltro Joyce non crede più, per dominare il materiale che gli sfugge. Ecco perché Molly è anche la Beatrice dantesca.

E non a caso assistiamo anche alla parodia di temi romantici, come quando una sorta di primitivo filo interdentale viene paragonato a un’arpa eolia. Boitani conclude sottolineando come Joyce adotti la prospettiva del plurilinguismo, che gli consente, come Dante, di passare dal registro più basso e carnale alle visioni più astratte, che in lui però assumono sempre una dimensione terrena.

Pubblicato in: 
GN32 Anno III 22 dicembre 2010
Scheda
Titolo completo: 

Auditorium Parco della Musica, Teatro Studio

Lunedì 13 dicembre 2010, ore 21,00
VI RACCONTO UN ROMANZO
a cura di Valerio Magrelli

Piera degli Esposti
legge
Ulisse di James Joyce
Introduce Piero Boitani

Anno: 
2010
Voto: 
9