Pink Floyd Legend. Live at Ostia antica

Articolo di: 
Teo Orlando
Pink Floyd Legend

Sabato 17 settembre 2016 i Pink Floyd Legend hanno dato vita a uno scintillante spettacolo che ha avuto come venue il Teatro Romano di Ostia antica.

Quella che ormai è divenuta una delle più accreditate tribute bands del gruppo di Waters, Wright, Gilmour e Mason, composta da Fabio Castaldi (Basso, chitarre e voce), Andrea Fillo (Chitarre), Alberto Maiozzi (Percussioni) e Simone Temporali (tastiere), ha voluto cimentarsi con una sfida estremamente ambiziosa: riprodurre con precisione filologica il mitico concerto che i Pink Floyd registrarono tra le rovine di Pompei nel 1971 (rigorosamente senza pubblico), e poi immortalato nel film Pink Floyd: Live at Pompei. Per questa speciale performance sono stati accompagnati sul palco da un coro di grande qualità, nel quale spiccava la vocalist Durga MacBroom, che aveva già collaborato con i Pink Floyd originali.

La cornice scenografica del Teatro di Ostia Antica ha in qualche maniera permesso di riprodurre l'incanto dell'atmosfera del concerto originario, grazie anche all'uso sapiente e accurato della strumentazione d'epoca, compresi sintetizzatori, un organo Farfisa Compact Duo (con il quale Richard Wright creò le celestial voices di A Saucerful of Secrets) e perfino un grande gong al centro del palco. La stessa chitarra è una Black Strat, come quella usata a suo tempo da David Gilmour.

Non sono mancati gli effetti speciali, secondo la più tipica tradizione floydiana: lo schermo circolare dove venivano proiettate sequenze filmiche di grande impatto, un enorme maiale gonfiabile, effetti laser e stroboscopici, con grande cura per l’aspetto visivo.

Certo, non possiamo dimenticare di essere in presenza di una tribute band: pur nella consapevolezza che sarebbe anacronistico tentare di riprodurre come una copia fedelissima le sonorità del mitico gruppo di Waters & Gilmour, la perizia strumentale e la precisione filologica sono la cifra stilistica di questo gruppo, che lo differenzia da altre imprese simili che invece spesso hanno scelto la strada del totale riarrangiamento (ad es. le versioni in chiave jazz dei pezzi floydiani dell’ensemble di Rita Marcotulli).

Il concerto comincia con "Echoes, part I", dal disco Meddle, del 1971: il sobrio ma efficace impianto luci con effetti "strobocaleidoscopici" introduce la suite, dove si stagliano alcune sezioni ritmiche e strumentali che oggi non si esiterebbe a definire post rock, con affinità anche con gli esperimenti ambient di Robert Fripp e Brian Eno.  Sullo schermo scorrono scene di galassie ed excerpts da 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Gli inconfondibili rintocchi delle tastiere (nell'originale si trattava di un pianoforte a coda amplificato mediante un altoparlante Leslie, che ripeteva tre volte una nota acuta, in si naturale, a cui si aggiungeva un'ulteriore nota acuta prodotta dalla slide guitar di Gilmour) preparano il pubblico alla fruizione di una suite vista da taluni quasi come la continuazione, in termini più psichedelici, di Atom Heart Mother. Successivamente entra la batteria e subito dopo la chitarra elettrica e le tastiere accompagnano gli indimenticabili versi di Roger Waters, con reminiscenze da John Keats, William Blake, Wystan Hugh Auden e Charles Baudelaire (“Overhead the albatross hangs motionless upon the air/And deep beneath the rolling waves/In labyrinths of coral caves/The echo of a distant time/Comes billowing across the sand” – "Su in alto l’albatro sta sospeso immobile nell'aria/e in profondità sotto le onde che volteggiano/In labirinti di grotte di corallo/L'eco di un tempo remoto/arriva muovendosi a spirale attraverso la sabbia" – trad. mia).

Segue un'altro pezzo leggendario dei Pink Floyd più psichedelici: "Careful with that Axe, Eugene", inciso una prima volta come singolo e poi ospitato sia nel Live at Pompeii, sia in Ummagumma (la versione che noi preferiamo). Si tratta di un brano musicalmente molto raffinato, dove a un'improvvisazione per organo secondo la scala diatonica chiamata "modo frigio" corrisponde un basso ostinato che accompagna la riproduzione di una sola nota (in questo caso, il re) in ottave, per poi sciogliersi in una melodia dal sapore orientaleggiante, in un climax che viene improvvisamente perforato da un urlo quasi disumano. Se in effetti dovessimo muovere una piccola critica ai Pink Floyd Legend, potremmo sostenere che l'esecuzione di questo brano ci è sembrata un pochino fredda, quasi una dissezione da laboratorio. Del resto, non si poteva certo pretendere da Castaldi una riproduzione fedele dell'urlo di Waters: sarebbe stata un po' grottesca e fuori luogo. La band è pertanto da lodare per la moderazione e il senso di equilibrio.

Di grande perizia strumentale è poi la sperimentale "A Saucerful of Secrets" (dall'album omonimo. Originariamente il pezzo aveva come titolo "The Massed Gadget of Hercules"). Secondo Waters si trattava quasi di un poema sinfonico in quattro brevi movimenti che descriveva una battaglia. La band ci è sembrata particolarmente accurata nell'escuzione corale del movimento finale, "Celestial Voices", che esprime il lutto per i caduti.

Dopo un'ossessiva "One of These Days", due lunghi assoli di tastiere introducono un’ipnotica versione della minisuite Set the Controls for the Heart of the Sun, costruita sui suoni di timpani e chitarre, anch'essa in modo frigio. Il canto si libra ripetendo come un mantra ipnotico i versi del titolo. A cui si aggiungono altri versi sinistri e perturbanti, ispirati ad alcune poesie cinesi del IX secolo, dell’epoca della dinastia Tang (ad es. “Witness the man who raves at the wall/Making the shape of his questions to Heaven./Knowing the sun will fall in the evening”, Osserva l’uomo che vaneggia contro il muro/plasmando la forma delle sue domande al Cielo./Sapendo che il sole cadrà di sera).

La prima parte del concerto si conclude con una divertente "Mademoiselle Nobs" (la versione originaria di "Seamus", per voce di uomo e di cane) e con la seconda parte di "Echoes".

Nella seconda parte assistiamo alla riproposta dei brani più celebri e meno sperimentali dell'arco di tempo pinkfloydiano che va dal 1973 (The Dark Side of the Moon) al 1979 (The Wall).

Si comincia proprio con una sorta di trittico dal celebre disco doppio del 1979: la vibrante “In the Flesh”, dalle sonorità quasi metal, la canzone di raccordo "The Happiest Days of Our Lives" e la celeberrima “Another Brick in the Wall”, incentrata sul sadomasochismo del rapporto tra docenti e studenti, mentre scorrono sullo schermo immagini dal film originario del 1982, The Wall, interpretato da Bob Geldof.

Gli accordi di sintetizzatore e di chitarra elettrica "trattata" introducono in modo facilmente riconoscibile “Shine on You Crazy Diamond”, celeberrimo brano dedicato a Syd Barrett (morto prematuramente nel Barrett  ma dal 1970 era ormai uscito dalle scene) , spesso soprannominato il “diamante pazzo”, uno dei membri fondatori dei Pink Floyd. Il suono che la chitarra di Andrea Fillo emette è più solenne rispetto a quella di Gilmour, con accordi prolungati e dilatati, a cui aggiungono poi via via gli altri strumenti: il basso elettrico, la chitarra e le tastiere. Il canto non è privo di intensità, in un notevole sforzo di riprodurre l’espressività dell’originale. Poi si intromette anche un sax tenore, che porta alla conclusione della prima sezione del brano.

Sullo schermo circolare che sovrasta il palco viene proiettato un video dove compaiono orologi ticchettanti, dalla stessa sagoma degli orologi molli del famoso quadro La persistenza della memoria di Salvador Dalí: ovviamente, il video introduce “Time”, brano paradigmaticamente dedicato all’ineluttabilità dello scorrere del tempo ("The sun is the same in a relative way, but you're older/Shorter of breath and one day closer to death"), contro cui l’unico rimedio è quello di una “quieta disperazione” (quiet desperation) che ci permette comunque di vivere.

Nella successiva “The Great Gig in the Sky” (in origine una sorta di “song with no words” sulla morte, affidata ai vocalizzi di Clare Torry), le tre coriste danno vita a una splendida e intensa performance che non fa rimpiangere l’originale, mentre sullo schermo scorre un video con scene acquatiche.

Dopo "Mother", sempre da The Wall, e la celebre "Money" (dal ritmo quasi be bop), arriva il doppio brano “Brain Damage/Eclipse”, che viene eseguito con grande pathos, mentre sullo schermo scorrono scene raffiguranti uomini politici degli anni ’70 e ’80, da Ronald Reagan a Saddam Hussein, fino a Margaret Thatcher, fino a un "cameo" con Matteo Renzi.

Il pubblico applaude con una standing ovation, ma c’è ancora il tempo per due bis: “Wish You Were Here”, dedicata anch’essa a Syd Barrett, e che diventa più emozionante quando viene cantata in coro da un pubblico entusiasta. E “Comfortably Numb”, suonata con eccellente perizia strumentale, soprattutto per l'assolo conclusivo di chitarra. Sullo schermo scorrono le immagini da The Wall dove campeggiano cartoni animati che parodizzano una società totalitaria, mentre dalle gradinate laterali del teatro scende un maiale di plastica.

Pubblicato in: 
GN40 Anno VIII 23 settembre 2016
Scheda
Titolo completo: 

Pink Floyd Legend:
Live al Teatro Romano di Ostia Antica
17 settembre 2016, 21,00

Setlist

Prima parte:

Echoes, part I
Careful with That Axe, Eugene
A Saucerful of Secrets
One of These Days
Set the Controls for the Heart of the Sun
Mademoiselle Nobs (Seamus)
Echoes, part II

Seconda parte:

In the Flesh
The Happiest Days of Our Lives
Another Brick in the Wall, part 2
Shine on You Crazy Diamond, part 1-5
Time
The Great Gig in the Sky
Money
Mother
Brain Damage
Eclipse

Encore:

Wish You Were Here
Comfortably Numb