Remo Bodei all'Auditorium Parco della Musica. L'identità paradossale

Articolo di: 
Teo Orlando
Remo Bodei

Il 23 giugno del 2011 nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma si è tenuta la seconda conferenza della serie Le parole della politica, a cura della Fondazione Musica per Roma, con la collaborazione della provincia di Roma e della casa editrice Laterza. Il filosofo Remo Bodei e la giornalista Miriam Mafai hanno affrontato rispettivamente,  i temi dell’identità e della piazza.

Ha introdotto il giornalista Vladimiro Polchi de la Repubblica, il quale ha esordito raccontando due fatti di cronaca: il primo relativo alla proposta della Federcalcio francese di introdurre un sistema di quote  “razziali”, come una sorta di misura contro l’eccesso di calciatori stranieri nella nazionale francese (di cui un esempio a tutti noto è stato l’algerino Zinédine Zidane ai mondiali del 2008): l’identità francese andava rafforzata.

Il secondo è il clamore suscitato da un comunicato di Marco Bottecchia, segretario della Lega Nord di Sacile (Pordenone), intitolato “Salviamo la nostra identità”, che rievoca i tempi della battaglia di Lepanto, al fine di difendere la società cristiana, “contro la marea montante dei seguaci di Allah”. È paradossale che proprio un partito come la Lega Nord difenda l’identità nazionale, tema che è comunque caro ai partiti di estrema destra. Il giornalista conclude il suo intervento chiedendosi se l’identità sia o no un concetto monolitico.

L’intervento di Remo Bodei, docente di filosofia all’Università della California di Los Angeles e prima ancora alla Scuola Normale Superiore di Pisa, parte dalla definizione del termine identità: è un vocabolo controverso e così usato da divenire un’ossessione; spesso non si capisce che cosa voglia dire, se non nel suo significato polemico di inclusione e di esclusione.

Il concetto di identità nasce in logica e matematica per indicare l'uguaglianza di qualcosa con sé stessa (anche nel tempo, come quasi sinonimo di durata). Già prefigurato da Aristotele, il principio di identità come legge della logica formale appare nei testi di Gottfried W. Leibniz (che nei Nouveaux essais sur l’entendement humain menziona l’assioma “il quale comporta che una cosa è uguale a sé stessa o che ciò che è il medesimo è uguale”, IV, 7, § 10) e viene codificato da Christian Wolff e da Immanuel Kant, che lo presenta come il primo tra tutti i princìpi logici.

Negli ultimi decenni nel campo politico (e già nel Seicento per quanto riguarda la nozione di identità personale), il termine identità è stato utilizzato per indicare un senso di appartenenza collettiva vincolata a fattori naturali (come il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (ad esempio la nazione, il popolo o la classe sociale).

Per Bodei, la riduzione della presenza degli africani al trenta per cento nella nazionale francese non è casuale: è un atteggiamento che in Francia - e non solo in Francia - ha una lunga storia, connessa alla questione della cosiddetta eredità di sangue, per cui i francesi si distinguerebbero da altri popoli per il loro sangue puro che non va contaminato (nel Cimitero di Praga di Umberto Eco ricorrono spesso frasi del genere quando vengono delineati gli stereotipi razzisti). Non si tratta del “sangue impuro che abbevera i nostri solchi” della Marsigliese (“Qu'un sang impur/ Abrevue nos sillons!”), giacché quello era il sangue dei tiranni e dei loro seguaci, non quello dei francesi. I francesi hanno però il senso del sangue: si pensi al teorico del razzismo Joseph Arthur de Gobineau (autore del famigerato Essai sur l'inégalité des races humaines), al fondatore dell'Action française, Charles Maurras, agli esponenti della repubblica di Vichy, a Le Pen padre e figlia: l’idea del sangue francese è diventato il simbolo del legame tra vivi e i morti.  Per i Le Pen senza disuguaglianza non esiste la Francia: la Francia non sarebbe la Francia se non fosse abitata da francesi puri.

Bodei fa poi un passo indietro di quasi mezzo millennio per far comprendere come i fenomeni di identità che presuppongono la divisione tra noi e gli altri, con la supremazia del Noi, abbiano radici antiche: nel 1538, a Città del Messico conquistata da Hernán Cortés, si organizza una festa della pace tra Carlo V e Francesco I: si dà mandato a un architetto italiano di piantare migliaia alberi nel Zócalo, la piazza centrale, ordinando poi ai glabri aztechi di vestire di pellicce. Gli spagnoli volevano confermare la loro identità di dominatori trasformando la civiltà azteca in un mondo fatto di selvaggi (letteralmente “abitatori delle selve”), ad onta delle quaranta torri  di Tenochtitlán. L’immaginario del selvaggio deve essere tale da veicolare l’aspetto ferino, memori dell'immagine di Sant’Onofrio nel deserto.

Si trattava di una forma di cecità cognitiva: pur sapendo percettivamente che i conquistati erano civili, la loro immagine andava degradata a quella di primitivi e selvaggi. L’identità si forma così attraverso meccanismi di inclusione ed esclusione.

L’identità – prosegue Bodei - non è sempre negoziabile, anche perché spesso nasce dall’insicurezza. Ma questo tipo di identità spesso si ammanta di forme cerimoniali e di ideologie che spesso ci lasciano interdetti (si pensi alla cerimonia dell’ampolla dell’acqua del Po o alla pretesa discendenza diretta da popolazioni celtiche. E in effetti sembra stupefacente che persone ragionevoli e sensate abbiano potuto credere a favole come quella della cosiddetta “eredità di sangue" o della presunta autoctonia di un popolo, fino a inventare il mito della discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o quello della sacralità dell'acqua di certi fiumi).

Anche perché molti miti apparentemente ancestrali sono spesso invenzioni recenti. Lo storico Eric J. Hobsbawm ha osservato che il cerimoniale dell’incoronazione del re d’Inghilterra non è medievale, ma risale alla metà dell’800. Così le messe rituali per i caduti in guerra sono un invenzione del filosofo Friedrich Schleiermacher per il re di Prussia e vennero celebrate per la prima volta a Berlino nel 1825.

Spesso ciò che è stato creato quasi dal nulla in modo fantastico può prendere radici e diventare una solida realtà: nel 1827, dopo l’indipendenza greca, una commissione di grammatici venne incaricata di purificare il greco dalle parole turche, creando così la Καθαρεύουσα, una sorta di lingua greca pura ancora adottata fino a pochi decenni fa. Ciò dimostra che non bisogna pensare che qualsiasi invenzione non possa trovare, per quanto assurda, nelle persone una forma di condivisione: i simboli hanno una forza di attrazione che li rende più efficaci di quanto si pensi.

Quanto all’evocazione da parte del leghista Bottecchia della battaglia di Lepanto (1571) contro i mussulmani, essa fa appello a una sorta di commistione tra elementi neopagani e una forma di cristianesimo ultratradizionalista, che ispira slogan come il seguente, leggibile sui muri di alcune cittadine della provincia italiana: “Bruciare gli eretici non è un reato, San Pio V ce l’ha insegnato”.

E non a caso nel Palazzo Spada di Terni - osserva Bodei - ai dipinti per evocare le "glorie" di Lepanto se ne affianca uno sulla strage degli ugonotti del 1572. La Lega riprende una sorta di cristianesimo aggressivo, ormai ben distante dalle posizioni delle gerarchie ecclesiastiche. Semmai la Chiesa invoca il riconoscimento delle radici cristiane d’Europa, che nella Costituzione europea alla fine non è stato incluso, anche perché alla tradizione di Gerusalemme non si può non affiancare quella di Atene per la filosofia e di Roma per il diritto.

L’identità si configura quindi come costruzione di un cantiere aperto, mai come qualcosa di dato. Non si può dimenticare del resto che per Zygmunt Bauman il concetto di identità individuale si sta annacquando, diventando “liquido”, mentre i referenti che delimitano l’identità dell’individuo, come le istituzioni, non sono più così forti da cementarla e consolidarla. Del resto il problema dell’identità è sempre quello del rapporto tra individuo e comunità.

Ma come nascono le identità, individuale e collettiva? L’identità individuale, spiega poi Bodei, nasce come prodotto della discussione sull’immortalità dell’anima, considerata come un nucleo semplice che dura oltre la morte del corpo.

Ma John Locke (che pure era credente a livello di fede personale) dichiarò indimostrabile la sostanza come anima, riducendola a una leva di scorrimento in cui tutti i nostri vissuti si presentano. Però fu proprio lui a foggiare il concetto di personal identity nell’Essay concerning Human Understanding. È il filo della memoria che connette me stesso al passato e al concern (preoccupazione) per il futuro: non è una fondazione verticale che poggia su qualcosa di solido.

All’epoca di Locke, verso la fine del XVII secolo, entra in crisi l’idea metafisica e religiosa di “anima”, concepita come il sostrato unitario e indivisibile che fonda il permanere delle nostre esperienze: l'anima era in precedenza intesa quasi come una proiezione verso l’eternità dell'individuo, ancorato alla vita terrena e al divenire temporale. Una volta che viene meno questa possibilità, l’individuo deve abituarsi a vivere nel mondo contingente della caducità: non a caso in Locke l’identità personale si connette con la percezione della fragilità della coscienza.

L’identità non è un dato ma un fatto: è il frutto di un’attività ed è quindi connessa al lavoro, a sua volta connesso con la proprietà. Come con il lavoro trasformo il mondo e nutro me stesso, così l’identità personale è il frutto dell’elaborazione delle mie idee e dei miei concetti. Bisogna lottare per costruire una vera self-awareness, una consapevolezza di sé stessi. Altrimenti, dice Locke con un’immagine di sapore barocco, le mie idee muoiono prima di me, simili alle tombe di pietra e di metallo in cui le intemperie hanno cancellato i nomi e dove è rimasta la pura materia.

Anche l’identità collettiva appare come il frutto di milioni di individui che l’hanno prodotta: l’identità di una nazione come l’Italia è la sua storia, come diceva Benedetto Croce.

Anche la sinistra deve perciò tener conto dei rapporti e della continuità tra i vivi e i morti e della tradizione vivente, delle forme che vengono a coagularsi, fino al punto di farci credere che l’identità sia solo qualcosa di autoreferenziali, facendoci dimenticare che noi siamo “plurali”, nel senso che non siamo avulsi dalla storia che ci ha creato. Nascendo e crescendo noi ripercorriamo a tappe forzate la nostra cultura diventando contemporanei di noi stessi, anche attraverso il linguaggio.

L’importanza del linguaggio viene da Bodei sottolineata con un riferimento a Émile Benveniste, l’autore del celebre Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, che ha sottolineato come nel rapporto identitario ci sia sempre conflitto. Si pensi al fatto che il termine latino hostis voglia dire sia ospite sia nemico. In entrambi i casi abbiamo a che fare con il processo di scambio: con il nemico ci si scambia la morte e con l’ospite i doni.

Simile è la parola ostia, vittima sacrificale per i pagani e scambio tra uomo e Dio per i cristiani, una ricerca di protezione attraverso il sacrificio. Si pensi anche al saggio di Sigmund Freud Sul significato opposto delle parole primordiali.

Nella nostra cultura nessun’identità può reggere in una presunta purezza perché c’è sempre il pericolo di asfissia in culture chiuse. L’autoctonia non regge, come non resse quella degli ateniesi, che pensavano quasi di essere sorti dalla terra come funghi. Nessuna società vive solo di sé stessa, ha bisogno di scambi e di integrazione.

Nel mondo antico gli stranieri venivano accolti - c’era Ξένιος Ζεύς, Zeus protettore degli stranieri -, ma erano poi considerati inferiori, non potevano godere dei diritti di cittadinanza: si pensi ai meteci ad Atene. Nella tradizione della nostra cultura c’è stata sempre la predominanza della purezza della cittadinanza. Nella Repubblica, Platone per togliere il contagio degli stranieri, immaginava che Atene venisse separata dal porto del Pireo, dove cominciavano gli stranieri, come ha sottolineato Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici.

Aristotele scrisse una lettera in cui ammoniva Alessandro Magno, quando aveva cominciato a conquistare l’impero persiano, a non sposare la principessa Rossana e a trattare i barbari come piante e animali. Idee poi contraddette dal cosmopolitismo di stoici ed epicurei.

Anche Dante Alighieri nei canti XV-XVII del Paradiso incontra il suo trisavolo Cacciaguida, il quale rimpiange i tempi in cui Firenze era chiusa nella cerchia antica delle mura, mentre ora si sarebbe contaminata con gli inurbati dalle contrade limitrofe ("Ma la cittadinanza, ch’è or mista/di Campi, di Certaldo e di Fegghine,/pura vediesi ne l’ultimo artista./Oh quanto fora meglio esser vicine/quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo/e a Trespiano aver vostro confine,/che averle dentro e sostener lo puzzo/del villan d’Aguglion, di quel da Signa,/che già per barattare ha l’occhio aguzzo!", Paradiso, XVI, vv. 49-57). Non va bene la commistione perché “sempre la confusion de le persone/principio fu del mal de la cittade” (vv. 67-68), anche per la ricerca dei “subiti guadagni”. Le culture diverse mischiate insieme rischiano di produrre la corruzione dei popoli.

Bodei sostiene che alla radice dell’idea di identità come esclusione vi siano i cimiteri, dove erano sepolti solo i battezzati, con l’esclusione di infedeli, eretici, ebrei e cattivi cristiani. Si ritorna all’idea di identità come comunanza con i morti: noi siamo francesi o italiani perché qui sono sepolti i nostri avi. L'idea di identità nella tradizione ottocentesca è legata a quella di comunità, come sottolineò lo storico Fustel de Coulanges nell'opera La cité antique (1864).

In realtà oggi sarebbe difficile declinare la nostra identità secondo l’auspicio di Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l'Italia ancora non unificata: "Una d'arme, di lingua, d'altare,/ Di memorie, di sangue e di cor". Viene quasi presentato in forma di allucinazione il fatto che le truppe piemontesi attraversino il Ticino, confine tra Regno di Sardegna e Lombardo-Veneto austriaco. L’unione della patria e l’identità collettiva vengono costruite da Manzoni con requisiti che non sono più necessari, tranne in parte l’unità di lingua, anche per motivi pratici. L’unità religiosa (una d’altare) ormai cede alla pluralità delle fedi, nella maggior parte degli Stati civili.

Quella di sangue (da Manzoni intesa come mera unità degli italiani) sicuramente non è necessaria: del resto lo ius sanguinis del diritto romano precede il Blut und Boden dei nazisti. Se è vero che la nostra identità cambia con il tempo, è anche vero che ci sono identità che si costruiscono, anch’esse artificialmente: si pensi ai Baschi che fanno risalire le loro origini a popolazioni indoeuropee, ma che hanno scoperto solo nel 1874 la loro “baschità”. Il rischio è quello delle lingue tagliate e delle minoranze non riconosciute che potrebbero scomparire.

Esistono civiltà che scompaiono: si pensi al breve racconto di Jorge-Luis Borges sull’ultimo Sassone, Werferth ("991 A. D.", nella raccolta La moneda de hierro), o al romanzo di James Feminore Cooper sull’ultimo dei Mohicani. Peraltro ci sono istituzioni che durano, come la famiglia, l’esercito, i carabinieri, la magistratura. Bisogna distinguere tra identità effimere e durature, dove la tradizione non è venerazione del passato ma è una sorgente da cui continua a uscire l’acqua.

Bodei conclude distinguendo tre tipi di identità.

1) La prima si esprime in una sorta di formula logico-matematica: "A=A": l'italiano è italiano e il rumeno è rumeno. Si tratta di una definizione naturalistica, autoreferenziale e immutabile. È forse quella più viscerale e limitata, che non è in grado di accettare confronti con le altre comunità, disprezzate e detestate, senza alcuna considerazione per i loro pregi. È una nozione di identità deprecabile che impedisce di discutere nel merito, coltivata spesso dalle forme politiche effimere che non vogliono il contraddittorio.

2) La seconda si basa sulla santificazione dell'esistente: ciò che si è divenuti attraverso tutta la storia è di per sé stesso positivo e merita di essere esaltato. Di questo genere era il culto del proletariato nell’Unione Sovietica degli anni Venti: il proletario per Stalin viene quasi santificato, fino a dimenticare le ferite e le lesioni personali che la storia ha inciso sulle persone. Qualcosa di analogo è accaduto con il proto-femminismo: la donna va santificata così come è divenuta. Ma qui si si trascurano due affermazioni, apparentemente opposte, di Friedrich Nietzsche e di Theodor W. Adorno. Secondo l’autore dello Zarathustra, quando ci si reca da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che il filosofo francofortese replicava, giustamente, che la donna è in qualche senso già il risultato della frusta. È un tipo di identità più articolata della prima, ma anch’essa gravida di rischi.

3) Il terzo tipo di identità, che Bodei propone come modello paradigmatico, somiglia a una corda da intrecciare: dove si intrecciano molti fili l’identità individuale e collettiva si potenzia e si esalta; è un’identità inclusiva e aggregativa (simili sono le riflessioni di Giacomo Marramao in Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003). L’accortezza sta nell'inserire adeguatamente nel tessuto sociale individui e gruppi che ne erano stati esclusi: ma al di fuori dell'integrazione non esistono realisticamente strade politicamente praticabili. I fattori di convivenza ci portano necessariamente a scegliere le politiche dell’inclusione. Questo tipo di integrazione/inclusione non significa che si debbano assimilare forzatamente gli “altri”, ma non vuol dire neppure che bisogna confinarli nei ghetti, sottratti a ogni contatto con la popolazione locale.

È necessario che venga ridotto lo iato che separa la tesi per cui la globalizzazione è un processo che cancella le differenze da quella per cui bisogna perseguire il mantenimento a ogni costo delle differenze stesse. Ciò per evitare il rischio e il paradosso per cui, quanto più il mondo globalizzato tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più si tende a reagire a quest’apertura con chiusure dettate da paure ed egoismi dove rinascono i localismi etnici delle piccole patrie. I due fenomeni vanno insieme: troviamo l’espansione e l’integrazione da un lato e la chiusura nei propri limiti e confini dall’altro. La dialettica tra inclusione ed esclusione ci segnerà nei prossimi decenni: Bodei, concludendo la sua brillante e multiforme conferenza, auspica che ci siano fattori di civiltà e di convivenza che ci permetteranno di preferire la grande patria inclusiva degli altri alla separazione e frammentazione di piccoli localismi egoistici che non producono che declino e depravazione della vita pubblica.

Alle considerazioni di Bodei si è associata Miriam Mafai, che le ha, per così dire, declinate in senso politico-pragmatico, sottolineando l’importanza della piazza come luogo dove si cambiano anche le opinioni, e citando vari episodi della storia italiana del XX secolo, in cui le piazze sono state protagoniste, ad esempio nel 1974 all’epoca della vittoria del referendum sul divorzio.

Pubblicato in: 
GN59 Anno III 4 luglio 2011
Scheda
Titolo completo: 

Le parole della politica

REMO BODEI: IDENTITÀ

MIRIAM MAFAI: PIAZZA
23 giugno 2011 - Auditorium Parco della Musica - Sala Petrassi

Fondazione Musica per Roma, provincia di Roma, Casa Editrice Laterza