Santa Cecilia. La Patetica. La lirica caducità dell'Eterno

Articolo di: 
Livia Bidoli
Alexej Kondrat'evič Savrasov

Sotto la direzione intensa e passionale del greco Constantinos Carydis (1974) si è materializzato un concerto che ha percorso la Russia dall’Ottocento al Novecento, con la partecipazione straordinaria del georgiano Alexander Toradze al piano: insieme al Coro ed all’Orchestra del'Accademia di Santa Cecilia, dal 28 al 31 maggio 2011, ci siamo inoltrati nelle Danze Polovesiane (da Il Principe Igor) di Aleksandr Borodin; il “paganiniano” per variazioni, Concerto n.2 in fa maggiore di Dimitrij Šostakovič, e l’ultima sinfonia di Čajkovskij, la n.6 in si minore , la Patetica, eseguita per la prima volta pochi giorni prima della morte del massimo compositore russo fra coloro che si (ed) aprirono all’occidente.

Una delle pagine più straordinarie del talentuoso Aleksandr Borodin (1833-1887) sono le Danze Polovesiane, che nascono dalla partitura di Il Principe Igor (1869-1887) e sono state orchestrate a tre mani dall’autore, da Rimskij-Korsakov e da Anatloij Ljadov. Pagina luminosa ed impetuosa, la ricercatezza dell’afflato e l’impetuosa ridondanza percussiva, nonché la raffinatissima parte corale, magnificamente diretta da Ciro Visco in questo caso, compongono le cinque parti di questa danza in una rarefazione il cui attacco lento dell’inizio va completandosi nel clima evanescente di aerosa pomposità. Il trascinamento espressivo si accorda perfettamente con le note ribattute che essenzialmente dipingono quell’esotismo di cui Borodin fu il glorioso continuatore dopo Glinka. La ciclica ricorrenza dei motivi insieme ai colori fiabeschi si accendono con i rintocchi dello xilofono insieme ai pizzicati dell’arpa, che Carydis sottolinea nella selvaggia ed incisiva conduzione (lui specialista in opera), specialmente nelle scene più percussive. I roboanti pizzicati gravi terminano nella barbarica Danza degli Uomini che, in coda a tutta l’orchestra, fa emergere con veemenza lo spirito russo trasmesso attraverso la vertiginosa danza.

Dimitij Šostakovič (1906-1975) ha scritto il Concerto n. 2 in fa maggiore per pianoforte ed orchestra op. 102  nel 1957, Stalin era morto nel 1953 e finalmente per lui, Prokof'ev ed altri compositori russi, si avvicinava quella libertà compositiva non più oppressa dai rimproveri staliniani per “non aver scritto una musica celebrativa per il popolo russo, ma piccolo-borghese e deviante verso il capitalismo occidentale”: i totalitarismi son tutti sempre dettati da un’estrema ignoranza, non c’è che dire (sic!).

Questa pagina sfavillante di variazioni e destinata ad un talentuoso pianista come Alexander Toradze fu scritta da Šostakovič per il figlio Maxim, ed il suo diciannovesimo compleanno ma non solo, anche per fare esercitare il provetto pianista di famiglia agli esercizi tecnici di Hanon (una serie di scale scritte in modo tale da conferire scioltezza a tutte le dita in modo equanime). Eseguito nell’anno seguente alla sua composizione dal compositore stesso (e nella sua prima esecuzione da Maxim), è un brano ricco di ritagli scintillanti e di sottili venature ambigue, coi suoi ritorni sincopati, soprattutto nell’Allegro iniziale, riconoscibilissimo negli estratti dedicati al Soldatino di piombo in Fantasia di Disney (1940). Nell’Andante il pianoforte resta solo con gli archi e ribatte incessante sui tasti, quasi alleggerendoli delle loro note gravi ed irrorando di argenteo lucore il pianissimo lirico che Toradze riesce a rendere in tutta la sua eloquenza sentimentale.

L’ultimo movimento, di nuovo un Allegro, si riaccende di colore e ritmo: giocoso e guizzante, è un intreccio di tempi e ritmi, riversando sulla marcetta il massimo volume dell’Alllegro iniziale, e lasciando trasparire quel soldatino che dentro di noi zoppica sui 7/8 e sul pizzicato simil balalaika (nonché sugli esercizi per Maxim).

Toradze, applauditissimo, concede un bis dalla Sonata per piano n.7 n. 83 dall’altro russo su cui è specializzato insieme a Strawinskij e Ravel, ovvero Sergej Prokof’ev: di raggiante scrittura, chiude la sua parte con estrema brillantezza ed il virtuosismo senza requie dei grandi maestri russi suoi vicini.

Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840-1893) ha ultimato e diretto la sua ultima sinfonia, la n. 6 in si minore op.74 (1893), pochi giorni prima della sua scomparsa e, sebbene oggi venga rigettata la tesi del suicidio per la futura e sicura onta della sua relazione – ormai divenuta di dominio pubblico – con il nipote del duca Stenbock-Thurmor – dei dubbi sulla distrazione che lo portò a bere acqua non bollita nella San Pietroburgo dove imperversava il colera, angosciano chi scrive, soprattutto dopo questo ascolto dal vivo che rivela quel senso di “smarrimento” medesimo che colpì il pubblico della prima esecuzione assoluta e che a più di un secolo di distanza non si affievolisce affatto.

La Patetica infatti, titolo più che appropriato conferito alla sinfonia dal fratello Modest, avviluppa immediatamente nelle sue cadenze dalle precipitose aperture liriche, fin dal primo movimento, Adagio. Alllegro non troppo (il più lungo); continuando nellAllegro con grazia, nello strepitoso attacco di roboante percussività coadiuvata dagli archi gravi, mentre gli altri “staffilano” il suono; quell’espressività conduce ad episodi la cui rutilanza muta raffinatamente in un valzer impossibile nell’Alllegro molto vivace. Qui il colore trionfa in tutta la sua sinuosa marcia lasciando spazio poi al tema silenzioso, che torna inaugurando il dialogo tra le parti di andamento brillante.

Nel quarto movimento, l’Adagio lamentoso. Andante, si respira la malinconia della fine che, se vogliamo seguire la trasposizione biografica del fratello Modest, traduce i movimenti coi quattro stadi della vita del fratello Pëtr: l’ultimo movimento rappresenta la mesta consapevolezza della caducità, di quel nulla che ha cercato di sconfiggere con la musica, seppur non essendogli mai sfuggito del tutto.

L’ultimo Adagio è quindi estremamente eloquente e concentrato, ed i tagli marcati ed improvvisi che poi convogliano verso il tema lirico centrale già sviluppato, non fanno che spingere in quel vortice che ha trasportato Čajkovskij nella scrittura di uno dei suoi vertici, in cui il lirismo e la precisione della scrittura sono talmente sincronici da lasciare sbigottiti. Essi svelano l’afflato dell’eternità (la Sehnsucht romantica) insieme al senso di fugacità, irretendo e consentendo di dire che il capolavoro della Sesta ha conquistato uno status di eccellenza, pienamente orientatata su quell’infinito che traduce nel cuore il sentimento lirico, ed effonde un anelito che sconquassa ad ogni ascolto.

Per questo ringraziamo Carydis non solo per l’esecuzione ma per la sensibilità con cui ha compreso il disorientamento del pubblico – dovuto al senso di angoscia prodotto dal pianissimo assoluto finale e funereo - attendendo qualche secondo suppletivo per farlo affievolire e renderlo così sopportabile nella sua universale ed empatica vastità.

Pubblicato in: 
GN55 Anno III 6 giugno 2011
Scheda
Titolo completo: 

STAGIONE DI MUSICA SINFONICA  2010-2011
Sabato 28 maggio  ore 18 -  lunedì 30 ore 21  -  martedì 31 ore 19.30*
Auditorium Parco della Musica – Sala Santa Cecilia

Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Ciro Visco Maestro del Coro
Constantinos Carydis direttore
Alexander Toradze pianoforte
Borodin  Danze Polovesiane
Šostakovič Concerto n. 2 in fa maggiore per pianoforte e orchestra op. 102.
Čajkovskij   Patetica

Encore

Sergej Prokof’ev Sonata per piano n.7 n. 83

*Concerto seguito