Steven Wilson al Teatro Sistina. L'eco progressive dei Porcupine Tree

Articolo di: 
Teo Orlando
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 Il 31 marzo 2015 il Teatro Sistina di Roma ha ospitato la tappa romana dell’alfiere del neoprogressive: Steven Wilson, il leader dei Porcupine Tree, ossia colui a cui Robert Fripp, il leggendario fondatore dei King Crimson, ha affidato la rimasterizzazione dei dischi storici del gruppo più seminale e influente della storia del progressive (operazione che Wilson ha poi ripetuto anche per conto di Ian Anderson e del primo catalogo dei Jethro Tull).

Wilson ha presentato qui il quarto disco della sua cosiddetta carriera solista, ossia Hand. Cannot. Erase (gli altri tre sono Insurgentes del 2008, Grace for Drowning del 2011 e The Raven That Refused to Sing del 2013).

La presentazione del disco ha cercato di rendere il palcoscenico una sorta di spazio multimediale, dotato di una sorta di “funzione diegetica” finalizzata a ricostruire il tessuto narrativo di quello che si presenta come un vero e proprio concept album. Si susseguono così fotografie, video, live visuals, proiezioni di siti internet, ecc.

Tutto si incentra sulla vicenda reale, che l’album reinterpreta, di Joyce Carol Vincent, una giovane inglese che venne trovata morta nel suo appartamento, a distanza di due anni e mezzo dal luttuoso evento;  dopo essersi barricata in casa sottraendosi alla vita sociale senza, però, essere più avvicinata né ricercata da nessuno. L’intero concept, dunque, ruota sul perno metaforico della spersonalizzazione di un io multiplo e lacerato, la cui ragione di esistenza si dissolve nell'universo telematico in cui ogni cosa è interconnessa, sicché quando viene staccato ogni contatto la persona cessa ipso facto di esistere.

Youssef Nassar e Lasse Hoile sono i registi delle immagini che si avvicendano sul fondo del palcoscenico, immergendo lo spettatore in atmosfere tipiche delle desolate periferie metropolitane, che da un lato sono uno dei temi preferiti da Wilson e dall’altro costituiscono un’introduzione necessaria al plot della vicenda raccontata nell’album. Si vedono quindi spezzoni di periferia di Berlino e di Londra, almeno a quanto siamo stati in grado di riconoscere (avremmo apprezzato anche qualche flash di Roma, da Tor Bella Monaca a Casal Palocco, le due periferie antitetiche, tanto più che Wilson confessa il suo affetto per Roma in quanto città che a suo tempo consacrò i Porcupine Tree a livello internazionale, ma tant’è). Da notare che Joyce Carol indossa una maglietta con il titolo di una canzone dei Joy Division, "Love Will Tear Us Apart", quasi a significare che per Wilson le radici progressive si sono combinate con quelle darkwave.

Il primo brano, “First regret”, è una sorta di ouverture strumentale, che prepara il primo vero pezzo, la mini-suite3 years older”. Siamo di fronte a un brano che comincia con accordi in chiave metal prog e si dipana poi con un cantato dall’accento tipicamente progressive, che dipinge una sorta di piccolo Bildungsroman:

You cross the schoolyard with your head held down/And walk the streets under the breaking cloud/With a hundred futures cascading out (Attraversi il cortile della scuola a testa bassa/E cammini per le strade sotto le nuvole che si aprono/Lasciando cadere in cascata un centinaio di futuri).

La protagonista sceglie volontariamente di troncare ogni rapporto con le persone care: And found a simple life with no one to share/It's not complicated (E hai trovato una vita semplice da non dividere con nessuno/Non è complicato).

È poi la volta della title track, Hand. Cannot. Erase” e della quasi sognante “Perfect Life”, in cui la protagonista spiega il legame fortissimo che la strinse a 13 anni con un’amica, chiamata con l’epiteto di “sorella”, che le fece conoscere musica (Dead Can Dance, Felt, This Mortal Coil) e libri, finché una separazione forzata la relegò in un angolo remoto della sua memoria (But gradually she passed into another distant part of my memory).

Routine” comincia con una lieve introduzione di pianoforte accompagnato da una voce quasi sussurrata, per poi espandersi secondo le modalità tipiche del progressive. Nel testo, alle attività della vita quotidiana fa riscontro una potente immagine poetica: Keep washing, keep scrubbing/Long until the dark comes to bruise the sky/Deep in the debt to night (Continua a lavare, continua a strofinare/Tanto a lungo finché il buio arriverà ad illividire il cielo/Indebitato fino al collo con la notte). Immagine quasi proseguita nel successivo brano, "Index" (da Grace for Drowning), dove si stigmatizza la mania di catalogare e l'ansia del collezionista.

A sorpresa, il brano successivo proviene dal repertorio dei Porcupine Tree: si tratta di quella “Lazarus” (personaggio evangelico caro anche a David Tibet, che gli dedica “Larkspur and Lazarus” in Soft Black Stars dei Current 93, e a Nick Cave, con “Dig, Lazarus, Dig!”, dall’album omonimo), da Deadwing, che esprime perfettamente quel misto di dolente rimpianto e di nostalgica Sehnsucht che costituiscono il lato oscuro di Wilson, ben esemplificato in versi come il seguente: Moonlight is bleeding from out of your soul (La luce lunare sta sanguinando dalla tua anima).

Dopo il metal prog di “Home Invasion” e le atmosfere da ultimi Pink Floyd di “Regret #9”, si passa a un brano meno recente, ossia “Harmony Korine”, da Insurgentes, con un’allusione a Thomas S. Eliot (Rain, come down, and fall forever/Drain, the dirt, into the wasteland - Pioggia, scendi, e cadi per sempre/Porta via lo sporco nella terra desolata). Si ritorna all’ultimo disco con “Ancestral”, con un testo dall’oscuro significato e dai toni filosofeggianti:

Reason never seems to come to guilty men/Things that meant so much mean nothing in the end/Their function is dysfunction and to hide the truth/Distracted by their faith, ignoring every proof (Gli uomini colpevoli non sembrano avere mai la capacità di ragionare/Le cose che avevano così tanta importanza alla fine non significano niente/La loro funzione è la disfunzione e nascondere la verità/Distratti dalla loro fiducia, ignorando ogni prova).

Il concerto sembra concludersi con “Ascendant Here On” e “Happy Return”, ma le sorprese arrivano dai bis: “The Watchmaker”, da The Raven That Refused To Sing, è una sorta di poemetto allegorico trasposto su una melodia che ricorda i Genesis degli anni ’70 (quelli di Nursery Cryme, in particolare). I versi colpiscono per il loro alto tasso metaforico: 

The watchmaker works all day, and long into the night/He pieces things together despite his failing sight/Though all the cogs connect with such poetic grace/Time has left its curse upon this place/Each hour becomes another empty space to fill/Wasted with the care and virtues of his skill/The watchmaker buries something deep within his thoughts/A shadow on the staircase of someone from before/This thing is broken now and cannot be repaired/Fifty years of compromise and aging bodies shared.

(L’orologiaio lavora tutto il giorno e per gran parte della notte/Mette insieme i pezzi nonostante la vista gli venga meno/Nonostante tutti gli ingranaggi si incastrino con una grazia così poetica/Il tempo ha lasciato una maledizione su questo luogo/Ogni ora diventa un altro spazio vuoto da riempire/Sprecato con l’attenzione e le virtù della sua perizia/L’orologiaio seppellisce qualcosa nel profondo dei suoi pensieri/Un’ombra sulla scala di qualcuno [che viene] dal passato/Questa cosa ormai è rotta e non può essere riparata/Cinquant’anni di compromessi e di corpi condivisi che sono invecchiati [insieme]).

Segue poi “Sleep Together”, da Fear of a Blank Planet, un disco con una delle copertine più inquietanti della storia del progressive (raffigurante un volto infantile colorato di azzurro con lo sguardo perturbante unheimlich, uncanny), minisuite che alterna toni da progressive classico con impennate metal.

E a coronamento del concerto, la title track da The Raven That Refused To Sing, dove il celebre corvo evocante il poemetto di Edgar Allan Poe viene invocato affinché assuma un’impossibile funzione consolatoria:

Sing to me raven/I miss her so much/Sing to me Lily/I miss you so much (Corvo, canta per me/Lei mi manca così tanto/Canta per me, Lily/Mi manchi così tanto).

Ottima la performance della band, con Marco Minnemann alle percussioni, Adam Holzman e Guthrie Govan alle tastiere e alle chitarre, Nick Beggs al basso e alle backing vocals. Si deplora soltanto l’assenza dei fiati di Theo Travis, che forte della collaborazione con Robert Fripp, aveva in altre occasioni impreziosito in chiave jazz-rock il suono dell’ensemble.

Pubblicato in: 
GN20 Anno VII 9 aprile 2015
Scheda
Titolo completo: 

An Evening with Steven Wilson

Hand. Cannot. Erase Tour 2015

Concerto - Roma, Teatro Sistina, 31 marzo 2015


SETLIST:

First Regret (Hand. Cannot. Erase)

3 Years Older (Hand. Cannot. Erase)

Hand Cannot Erase (Hand. Cannot. Erase)

Perfect Life (Hand. Cannot. Erase)

Routine (Hand. Cannot. Erase)

Index (Grace for Drowning)

Lazarus (Porcupine Tree, from Deadwing)

Home Invasion (Hand. Cannot. Erase)

Regret #9 (Hand. Cannot. Erase)

Harmony Korine (Insurgentes)

Ancestral (Hand. Cannot. Erase)

Ascendant Here On (Hand. Cannot. Erase)

Happy Returns (Hand. Cannot. Erase)

 

Encore

The Watchmaker (The Raven That Refused to Sing)

Sleep Together (Porcupine Tree, from Fear of a Blank Planet)

The Raven That Refused to Sing (The Raven That Refused to Sing)

 

 

 

 

Voto: 
9