Vajont. Una diga per l'Apocalisse

Articolo di: 
Alessandro Bravi
Diga del Vajont

La sera del 9 ottobre del 1963 si giocava la finale della Coppa dei Campioni tra il Real Madrid e i Glascow Rangers. Nei paesi veneti del valle del Vajont, i fortunati che avevano un televisore in casa, si erano radunati per guardare la partita, gli altri si riparavano nelle case dal freddo delle prime serate autunnali.

Improvvisamente l’Apocalisse. Una valanga d’acqua e di fango alta quasi 200 metri si abbattè come un fulmine sul paese di Longarone e su quello più piccolo di Erto Casso annientandoli, lasciando dietro di sé quasi duemila morti.

Una tragedia nazionale. Una Ninive degli anni ’60. Una catastrofe annunciata che sconvolse l’opinione pubblica italiana e quella europea. Erano le 22,45.

Un pezzo del monte Toc era franato crollando sull’invaso della diga del Vajont, costruita da pochi anni, ripiena d’acqua fin quasi alla capienza massima.

Era stata costruita negli anni tra il 1957 e il 1960, per conto della SADE (Società Adriatica di Elettricità) sul progetto dell’Ing.Carlo Semenza nel territorio del comune di Erto e Casso, nella Regione Autonoma del Friuli-Venzia Giulia, al confine con la provincia di Belluno, lungo il corso del torrente Vajont, (che nel dialetto friulano significa “va giù”).

Situata ad un’altezza di 262 m, venne aperta nel 1961. Nel 1962 divenne proprietà dell’ENEL.

Lo scopo della diga era di fungere da serbatoio di regolazione stagionale per le acque del fiume Piave, del torrente Maè e del torrente Boite, che precedentemente andavano direttamente al bacino della Val Gallina, che alimentava la grande centrale di Soverzene.

Le acque sottratte al loro corso naturale vennero così incanalate dalla diga di Pieve di Cadore (Piave), da quella di Pontesei (Maè) e da quella di Valle di Cadore (Boite) al bacino del Vajont tramite chilometri di tubazioni in cemento armato vibrato e spettacolari ponti-tubo

Erano gli anni in cui si cercava di utilizzare l’acqua per produrre energia elettrica pulita. E dove non era possibile ricorrere a cascate naturali, si costruivano dighe e invasi artificiali nelle zone alpine e prealpine.

Purtroppo, nel caso della Diga del Vajont, il terreno su cui venne costruita non era stabile. E nonostante i ripetuti esami tecnici – non si sa fino a quanto conniventi, insufficienti, od errati, si volle costruire lo stesso, esponendo la popolazione sottostante ad un rischio mortale.

Dopo il disastro cominciarono le inchieste e i processi. Furono condannati, dirigenti, consulenti, professori universitari, a 21 anni di reclusione per omicidio plurimo aggravato e disastro colposo. Ma poi, nei successivi gradi di giudizio, le pene vennero ridotte.

Ieri è stato riproposto il libro curato da Maurizio Reberschack “Il Grande Vajont”, pubblicato nel 1983, ma riedito da Cierre. Sono passati esattamente cinquant’anni da quella notte apocalittica. Rimase la consolazione che la diga non crollò.

Il Presidente della Repubblica ha voluti commemorare i poveri morti dicendo che non fu una fatlità. Insieme a lui, politici di ogni latitudine e di ogni grado, amministratori, semplici cittadini. Ma a me sembra ancora di vedere quei poveri ignari spettatori di una partita di calcio di cui non conobbero mai il risultato.

Pubblicato in: 
GN46 Anno V 15 ottobre 2013
Scheda
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Per approfondimenti

Maurizio Reberschack,  Il Grande Vajont, pp.494, illustrato brossura, € 20

Adriana Lotto, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, 216 pp., brossura cucita, €14.50

Entrambi i libri sono editi da Cierre