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Bianchi. Nello specchio della scuola. L'istruzione fuggente
Quando Patrizio Bianchi licenziò per le stampe Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l'Italia? (Bologna, Il Mulino, 2020), probabilmente non pensava che di lì a poco sarebbe diventato Ministro della Pubblica Istruzione. Sicché pubblicò un libro secondo il classico stile a cui ci hanno abituato i vari esponenti del cosiddetto think tank del Mulino: dati precisi e freddamente esibiti, stile da relazione aziendale, fiducia incondizionata nei rapporti dell'OCSE e di altre consimili organizzazioni (paradigmatici all'uopo sono i libri di Norberto Bottani).
Il libro di Bianchi esordisce in effetti con lo stile di un budget, di un bilancio preventivo aziendale, e si conclude con quello che sembra un bilancio consuntivo. Non è propriamente scritto in aziendalese, e neppure in pedagoghese (non interamente, almeno), ma dà comunque l'idea di un libro redatto più per assolvere a un dovere che di un testo animato da un'autentica passione e da un impegno civile. La freddezza e l'algida prosa ci fanno rimpiangere i pamphlet di Ernesto Galli Della Loggia e di Miska Ruggeri, anche quando non ne condividevamo alcuni presupposti.
Bianchi si chiede se esista uno stretto legame fra l'educazione (intesa come istruzione generale, sulla scia dell'inglese education), e lo sviluppo. La sua risposta è positiva, nella misura in cui "lo sviluppo socialmente ed economicamente sostenibile nel tempo si fonda sulla capacità di organizzare le competenze, le abilità manuali e il giudizio critico delle persone, e di trasformare queste in quel valore aggiunto che è la vera ricchezza di una comunità". A tal fine, per Bianchi (e come potrebbe negarlo?), la "scuola è il luogo in cui si formano quelle competenze, quelle abilità, quel giudizio, elementi costitutivi della personalità degli individui, ma [che] ne strutturano anche la partecipazione alla vita collettiva".
Bianchi ammette però che, storicamente, la scuola italiana non solo non ha rappresentato quel luogo di integrazione e di eguaglianza sociale che avrebbe dovuto essere, ma, al contrario, ha favorito l'emergere delle differenze sociali e il consolidamento delle disuguaglianze di classe. Sicché ha facile gioco nel richiamarsi alla Costituzione quando stabilisce che la scuola italiana deve essere aperta a tutti (art. 34) ed essere il primo presidio di uno Stato che voglia rimuovere ogni ostacolo che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impedisca «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3).
Il richiamo alla Costituzione e a concetti come quelli di libertà ed eguaglianza consente a Bianchi di passare in modo apparentemente indolore e consequenziale al piano economico: secondo lui, è da libertà ed eguaglianza che dovranno scaturire quelle competenze, abilità e capacità, con cui tutti i cittadini sono chiamati a partecipare alla «ricchezza della nazione», soprattutto in una fase storica come quella attuale, in cui le sfide della globalizzazione richiedono una necessaria trasformazione della nostra comunità in una «società della conoscenza». E da questo punto di vista, Bianchi paventa quella che chiama la «trappola della bassa crescita», ossia il rischio per cui, dopo aver attribuito, per ragioni di contenimento della spesa pubblica, poche risorse alla scuola, in futuro non si riescano più a garantire quelle competenze e abilità necessarie per far crescere realmente l’economia, in modo da poter investire in modo molto più significativo sull'istruzione.
La trappola della bassa crescita ha così prodotto un circolo vizioso che ha condannato il nostro Paese a una lunga condizione di stagnazione, con il corollario della forte disuguaglianza fra persone e fra territori, vera lesione del profilo democratico che l'Italia dovrebbe esibire. Per Bianchi, il Covid-19 dovrebbe rappresentare l'occasione per andare oltre la presunta "normalità" degli ultimi anni, cominciando un cammino di sviluppo all'insegna della "innovazione": con una punta di retorica, egli osserva che in questo modo si arriverà a scoprire che «la scuola è il battito della comunità», e richiama l'esperienza dell'Emilia-Romagna, quando nel 2012, dopo un terribile sisma che abbattè molti edifici fra Reggio Emilia e Ferrara, si ricominciò ricostruendo le scuole: era dalla loro riapertura che si attendeva il via per una ripresa della vita collettiva.
Nel primo capitolo, Bianchi prende le mosse dalla pandemia, sottolineando come essa abbia comportato una sospensione della scuola nella modalità ben conosciuta, ossia della scuola che ritmava, con i suoi orari, le classi, le aule, i banchi, i programmi, le discipline, la vita e le giornate di studenti e famiglie. Con il cosiddetto lockdown si è in pratica messo tutto sotto sequestro, con la chiusura degli edifici scolastici e con diverse forme di insegnamento a distanza. Ora, la tesi di Bianchi è che l'attesa di una "normalità" che riporti la scuola alla situazione precedente al virus non possa bastare. Infatti, dalla constatazione per cui l’Italia è il paese d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET (ossia di ragazzi che non studiano e non lavorano; acronimo di Not in Education, Employment, or Training), Bianchi deriva l'indifferibilità di una fase costituente per la scuola, dove però la scuola viene concepita, con una chiara declinazione economicistica, come "il motore di una crescita di un paese che da troppo tempo è bloccato".
Per Bianchi, infatti, i quattro punti imprescindibili per rifondare la scuola sono i seguenti:
1) Il primo punto consiste nel far crescere capacità critiche e visioni del mondo oltre il presente, per affrontare un futuro incerto e fragile sulle spalle dei giganti del passato. Non ingannino però espressioni così enfatiche: innanzitutto si sottolinea che la scuola non deve tanto fornire informazioni (vere, false, presunte, ma tutte reperibili su internet) quanto far crescere capacità critiche e visioni del mondo che vadano oltre il presente. Poi si sottolinea che la priorità sono i contenuti e i modi di una didattica che sia veramente inclusiva, che insegni agli studenti a «fare comunità», cioè a ricomporre diritti e solidarietà di una società molto più articolata di quelle del passato. Ma dopo qualche sviolinata retorica (del tipo: "educare alla solidarietà vuol dire partire dalle effettive realtà locali, per ricostruire con i ragazzi percorsi di conoscenza condivisa, anche laboratoriale, in cui ognuno – non uno di meno – possa partecipare della scoperta collettiva, che costruisce comunità solidali"), viene fuori la nuda verità: per Bianchi, bisogna uscire dagli schemi concettuali del Novecento, dalla scuola basata su programmi, orari, discipline strutturate da ordinanze e disposizioni centrali, con il dirigente scolastico che non sarà più l’ultimo anello di una catena gerarchica che da Roma arriva al suo istituto, ma il promotore di una nuova alleanza con il suo territorio, di cui la scuola sia percepita come pilastro essenziale.
2) Il secondo punto è rilanciare l’autonomia scolastica introdotta nel 1997, allorché il governo Prodi – con Luigi Berlinguer ministro dell'Istruzione – promosse una vasta azione di riordino della società italiana, in vista dell’entrata nell’euro e dell’apertura dei mercati internazional. Essa contemplava l’assunzione di obiettivi formativi comuni da raggiungere sull'intero territorio nazionale, ma riconosceva la possibilità di costruire percorsi che tenessero conto delle effettive diversità di partenza, dotando i territori delle necessarie
risorse per poter raggiungere i fini comuni.
3) Il terzo, immancabile punto è il rapporto con il territorio (quando si insiste sul cosiddetto territorio si viene inevitabilmente risospinti al sociologismo pedagogico-didattico degli anni settanta, e alle elucubrazioni del pensatore postmoderno Gilles Deleuze su territorializzazione e deterritorializzazione). Per Bianchi il rapporto con il territorio si intreccia con la nuova «questione meridionale», perché nel Sud il tasso di uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione va oltre due volte la media europea, mentre al Nord si attesta al 10%. Per il ministro, alla povertà educativa non potrà che far riscontro la miseria materiale, con un vincolo per la crescita sociale ed economica non solo del Sud, bensì dell’intero paese.
4. Il quarto punto sembra quasi una risposta, espressa in una forma paradossalmente interrogativa, al terzo: ossia, perché l’Italia è cresciuta meno degli altri paesi europei negli ultimi vent’anni? La risposta però rimane sul vago: viene sottolineata la necessità di costruire le capacità di gestire problemi complessi e lasciare spazio alla creatività. E, senza quasi rendersi conto di ripetere quasi alla lettera il primo punto, l'autore sottolinea come l’educazione alla solidarietà e al «fare comunità» debbano divenire la competenza principale per una ripresa che non sia effimera.
Dopo un'accurata analisi storica sulla bassa crescita italiana (Crescita e competenze per lo sviluppo), in cui l'economista Bianchi dà il meglio di sé, il libro sottolinea l'esigenza di fornire nuove competenze, nuove abilità e nuove capacità critiche all'economia di quella che viene chiamata la Quarta rivoluzione industriale. Queste nuove acquisizioni dovranno, ovviamente, implicare diverse modalità di organizzazione dei processi educativi, non solo per i ragazzi, ma anche per gli stessi adulti, in omaggio al modello del lifelong learning e al superamento del paradigma organizzativo fordista, che aveva governato per anni non solo l’industria, ma tutta la società.
Nella visione di Bianchi, pertanto, la scuola del futuro dovrà formare cittadini che possano esibire una disponibilità generalizzata di "competenze in grado di comprendere e risolvere problemi complessi, che richiedono creatività e lavoro di squadra, non solo specializzazioni individuali, ma sempre più capacità di rendere fra loro complementari competenze localizzate anche in luoghi lontani fra loro, ma sempre più interconnesse in reti che occorre però saper governare unitariamente, utilizzando appieno intelligenza artificiale e big data". Ma come ottenere questi mirabolanti risultati, oltre che attraverso un generico (ma non esattamente quantificato e rapportato ai singoli settori) aumento degli investimenti su scuola e università? Ma è semplice! Dice il Nostro: "Abbiamo bisogno di più scuola, ma soprattutto di una scuola che si liberi delle scorie del Novecento, per appropriarci di una scuola che permetta ai ragazzi di vivere nel loro futuro, con quel profondo bisogno di ricostruire comunità solidali che anni di individualismo e populismo hanno svuotato di quell’identità che la nostra Costituzione ancora ci indica". In concreto, da queste espressioni non si ricava molto di più di quanto si potrebbe ricavare dal discorso del professor Keating nel film L'attimo fuggente (Dead Poets Society): "Thoreau dice: «molti uomini hanno una vita di quieta disperazione»: non vi rassegnate a questo. Ribellatevi! Non affogatevi nella pigrizia mentale, guardatevi intorno! Osate cambiare. Cercate nuove strade".
A questo punto, dopo ulteriori analisi volte a spiegare come l'Italia sconti un ritardo nei livelli di istruzione (per cui certamente i giovani italiani sono più istruiti dei loro padri e dei loro nonni, ma lo svantaggio dell’Italia rispetto al resto dell’Europa nei livelli di istruzione della popolazione, pur riducendosi nelle classi di età più giovani, resta comunque elevato), Bianchi aggiunge un breve excursus storico, in cui mostra come l’educazione e la cultura siano sempre state monopolio delle classi dominanti. Passa così dalla Repubblica di Platone (dove il sistema educativo aveva una funzione di selezione e preparazione delle classi dirigenti nello Stato ideale) all'antica Roma (dove si sottolinea il valore educativo della famiglia come cellula dello Stato), dalla Riforma luterana, così importante per l'alfabetizzazione dei tedeschi, ai Two Treatises on Government di John Locke, in cui il potere era attribuito a un esecutivo legittimato dal Parlamento dei commons, cioè di quella borghesia produttiva che preparò la rivoluzione industriale. Cita inoltre Adam Smith e la sua idea per cui i miglioramenti nelle capacità produttive del lavoro, e la maggior parte delle skills, dexterity and judgements (competenze, capacità manuale e conoscenze critiche), dipendono dalla capacità di organizzare la produzione.
Segue poi una breve disamina storica dell'evoluzione dei sistemi scolastici nelle isole britanniche, negli Stati Uniti e nelle principali nazioni europee. Si sottolinea, ad esempio, che uno dei padri fondatori americani, Thomas Paine, pensava che un paese ben governato non dovesse lasciare nessuno senza istruzione, diversamente dai regimi monarchici e aristocratici, che invece vivevano dell’ignoranza del popolo. Parimenti, in Francia la Rivoluzione vide nella scuola il modo unitario per formare quella Nazione che diveniva la fonte di legittimazione del potere centrale, tendenza accentuata e codificata da Napoleone, finché la legge Ferry nel 1882 non rese obbligatoria, universale e gratuita la scuola di base e affidò ai lycées e ai collèges il compito di selezionare le classi dirigenti. Nell’Impero asburgico e in Prussia l'istruzione generalizzata divenne lo strumento per coniugare la volontà di espansione economica con una forte affermazione politica e militare: lo stesso insegnamento del tedesco doveva obbedire a uno schema etico, in cui obbedienza e rigore, di matrice luterana, divenivano i cardini educativi che regolavano la vita scolastica. E va sottolineato che, accanto al percorso educativo fondato sul Gymnasium per le classi dirigenti e a vari corsi professionali regionali, vennero fondate scuole tecniche statali di grado intermedio (Gewerbeschulen), i cui percorsi di studio portavano poi alle technische Universitäten, apice della struttura professionalizzante tedesca.
Diversa fu la storia della scuola nel Regno d’Italia, a partire dall'atto "primigenio", ossia la legge n. 3725 del Regno di Sardegna (datata 13 novembre 1859), con cui il ministro Gabrio Casati definiva in 380 articoli il funzionamento della scuola sabauda, dal 1861 estesa a un paese di 25 milioni di abitanti, unificato assemblando Stati con tradizioni educative diverse: veniva sì creata la scuola elementare di quattro anni, ma solo il primo biennio era obbligatorio e gratuito. Per la classe dirigente, si prevedeva un percorso costituito da ginnasio, liceo e università, basati sulla tradizione umanistica. Dice bene Bianchi quando osserva che "coscrizione scolastica e coscrizione militare divenivano quindi i due pilastri per uniformare sotto la bandiera dei Savoia il neonato Regno d’Italia", ma trascura il fatto che solo la coscrizione militare venisse rigidamente fatta rispettare, mentre l'evasione dell'obbligo scolastico riceveva sanzioni blande, se non nulle. Dopo una serie di provvedimenti circoscritti, come la legge Coppino del 1877, che elevò l’obbligo scolastico ai 9 anni di età, e la legge Credaro (che nazionalizzò le scuole elementari), bisognò aspettare il 1923, con la riforma Gentile, che si proponeva di «rifare gli italiani», accentuando il ruolo della formazione umanistica: ai cinque anni di scuola elementare seguivano il ginnasio (cinque anni), che portava al liceo classico e quindi all’università, dove si sarebbe formata la classe dirigente; in alternativa, erano previsti tre anni di scuola media a cui seguiva il liceo scientifico (vera creazione di Gentile, mentre il liceo classico già esisteva), o un istituto tecnico o magistrale (quattro anni), oppure una scuola di avviamento professionale (tre anni) senza ulteriori sbocchi. La riforma Gentile venne però ricondotta all’interno delle maglie del regime, per cui ogni bambino doveva essere inquadrato in un’organizzazione paramilitare, centralizzata e gerarchica, e che prevedeva che gli stessi docenti fossero iscritti al Partito Nazionale Fascista.
A conclusione della digressione storica, Bianchi sottolinea che la scuola, in tutti i paesi, ha esercitato tre fondamentali funzioni sociali:
1. Formare la classe dirigente e consolidare la separazione fra le classi.
2. Formare il popolo perché si appropriasse dei valori identitari della comunità, su basi linguistiche e territoriali.
3. Formare i lavoratori e tutti coloro che gestiscono i sistemi produttivi.
A queste tre funzioni, Bianchi aggiunge anche quella della formazione della persona, richiamandosi a Locke e a Rousseau (forse esagerando il valore "progressivo" delle loro tesi), e, attraverso l’illuminismo e il romanticismo, a tutti coloro che hanno messo al centro il concetto di individuo come persona a prescindere dalla sua origine, dal suo ceto e dalla sua appartenenza a una casta.
A questo punto, segue la pars construens del libro, che ci sembra tanto animata da buone intenzioni quanto deludente nelle proposte concrete. Per l'autore, occorre innanzitutto ragionare per diversi ordini di istruzione, "perché i bambini crescono, e si modificano i loro linguaggi, i loro bisogni, il loro modo di esprimere affetto e amicizia, ma anche rabbia e delusione" (la scoperta dell'acqua calda). Ne scaturirebbe la necessità di disporre di un numero di insegnanti proporzionato ai bisogni degli allievi e non ai vincoli di bilancio statale: insegnanti che andrebbero formati in modo che implementino un'azione educativa che sfugga alla trappola dell’uniformità e permetta agli studenti di sviluppare quelle che Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, chiama capabilities, che pongono al centro della dinamica economica la persona e la sua capacità di realizzare sé stessa, traducendo diritti formali in diritti effettivamente realizzati: il problema è che, per quanto Bianchi cerchi di edulcorare la pillola, il sistema educativo in quest'ottica diventa il principale strumento per lo sviluppo, sicché, de facto, l'istruzione viene subordinata all'economia. E a poco serve citare Martha Nussbaum, la quale ha posto in evidenza i diritti dei disabili e delle persone più fragili, come il diritto a vedere riconosciute le loro capabilities quale contributo essenziale alla crescita dell’intera comunità, perché sembra un espediente per rendere meno indigesta la pietanza ammannita da codesti cuochi liberisti.
Le quattro funzioni sociali precedenti vengono poi riformulate come "formazione di leadership in grado di orientare un’intera comunità verso la crescita, diffusione dei valori fondanti e unificanti di una comunità, ricerca delle competenze per uno sviluppo sostenibile nel tempo e diritto individuale all’acquisizione delle conoscenze necessarie per poter consolidare la propria personalità e partecipare alla vita civile".
A questo punto, dopo aver ribadito che il rispetto dei precetti costituzionali sarà la guida per il rilancio del paese, Bianchi sostiene che si debba rendere realmente universale ed effettivo il diritto allo studio, richiamandosi alla lezione di don Milani nella Lettera a una professoressa (testo che però risale al 1967 e fotografa una situazione totalmente diversa da quella dell'Italia odierna). E non trova di meglio che ripescare l'autonomia scolastica all'insegna delle leggi di Bassanini, Cassese e Berlinguer: autonomia finalizzata "alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, all’integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale" (di nuovo il territorio!): per lui, attuando pienamente l'autonomia, declinata in chiave responsabile e solidale, potremo andare oltre l’emergenza COVID-19. Ma quando si tratta poi di spiegare meglio in che cosa consista questa applicazione solidale dell'autonomia, non si va oltre il lessico socio-pedagoghese, dato che si sottolinea soltanto l'importanza di "ricostruire un tessuto sociale in cui la formulazione di Patti educativi di comunità può diventare lo strumento per una ricostruzione di contesto in cui riconoscersi e partecipare".
Tra le proposte più concrete, c'è quella, propiziata dalla riduzione del numero degli allievi in classe, ancorché motivata dal distanziamento, di superare la classe come unità amministrativa e recuperare un dialogo personalizzato che l’allievo deve avere con l’adulto di riferimento, ricercando e potenziando tutte quelle attività che alle competenze aggiungono una quota di socialità. E quali sono queste attività? Semplice: l'uso del computer in quanto principale mezzo di socializzazione dei millennials e il coding, cioè la programmazione informatica come modo per imparare la logica e risolvere i problemi complessi; l’arte e la musica come strumenti di creatività e aggregazione; la scoperta della vita collettiva della propria comunità e le regole dell’educazione civica, che in una parola vengono definite polis; lo sport come recupero del proprio corpo. E non manca poi l’educazione alla sostenibilità dell’ambiente. Anche l'alternanza scuola/lavoro andrebbe superata in nome di forme di integrazione in cui reciprocamente le imprese, le scuole, gli enti di ricerca si rendano fra loro complementari.
Molto generico invece appare il richiamo alla Commissione internazionale UNESCO sull’educazione per il XXI secolo, presieduta da Jacques Delors, che aveva individuato la necessità di rivedere gli obiettivi dell’educazione per predisporre competenze adeguate al nuovo secolo, individuando quattro pilastri dell'apprendimento: imparare a vivere assieme, imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a essere: poco convincente il richiamo a una scuola che non fosse più un serbatoio di nozioni, ma una palestra di apprendimento, che doveva proiettarsi ben oltre l’età giovanile per divenire una costante della vita di ognuno nella nuova «società della conoscenza».
Per Bianchi, per attuare pienamente tale società, bisogna ricominciare con una rete di scuole dell’infanzia che copra tutto il territorio nazionale affinché tutti i bambini possano dai 3 anni accedere a una scuola e i loro percorsi di vita possano realizzarsi con successo.
Alla legge n. 53 del 28 marzo 2003, con cui l’obbligo scolastico è stato innalzato dai 14 ai 16 anni, non è seguito un progetto formativo con un riconoscimento formale del biennio effettuato. Per Bianchi, all'uscita dalla scuola secondaria inferiore, diventa necessario garantire percorsi professionalizzanti con la stessa dignità di quelli liceali o tecnici che però permettano di raggiungere a 16 anni una qualifica professionale in grado di consentire l’accesso al mondo del lavoro, tesi che non può che trovarci d'accordo, soprattutto in virtù del fatto che, accanto agli istituti professionali di Stato che offrono un diploma quinquennale, esiste una formazione professionale (FP) di competenza regionale, che andrebbe meglio organizzata.
Una particolare riflessione la meritano pure gli istituti tecnici superiori (ITS), biennali, postsecondari e professionalizzanti, di livello terziario ma non universitario, rivolti a favorire l’inserimento diretto nel modo del lavoro tramite corsi gestiti insieme da scuole e imprese, sul modello delle scuole di alta formazione applicata tedesche (Fachhochschulen), che diplomano quasi un milione di studenti all’anno.
Molto rituale appare invece il tema della necessità di ridare alla figura dell’insegnante una rilevanza sociale adeguata alla responsabilità che essa assume nei confronti della società: temi come la preparazione iniziale, la selezione e la formazione permanente, in collaborazione con le università, vengono solo accennati senza proposte specifiche rispetto a modelli formativi passati, come la SSIS o il TFA.
Poco convincente appare altresì il richiamo a una scuola che investa di più in cultura scientifica, non in opposizione alla cultura umanistica, "ma che integri le conoscenze relative alle STEM in una visione della persona che deve potersi fondare su una cultura dell’uomo e della società che costituisce la base del sapere": chiunque non può che essere d'accordo sul fatto che "l’approccio scientifico-matematico deve fornire ai giovani gli strumenti metodologici per strutturare una capacità di ragionamento più sistematico – che impieghi allo stesso tempo capacità di astrazione e strumenti di sperimentazione" e che "le discipline umanistiche offrono a quel ragionamento la profondità che permette di posizionare i propri giudizi nel tempo e nello spazio". A ciò, secondo l'autore, potrebbe contribuire perfino la didattica a distanza, che, dopo il periodo del lockdown, andrebbe ripensata e valorizzata in quanto strumento per rispondere in maniera mirata a bisogni specifici all’interno di approcci educativi personalizzati. Inquietante è invece il riferimento a una "forte essenzializzazione del curricolo che va reso più coerente con la centralità delle nuove competenze e più attento alla continuità educativa tra i vari ordini di scuola": al di là del fumoso pedagoghese e didattichese, questo vuol dire semplicemente che si alleggeriranno materie e contenuti.
Con una certa ripetitività (che lascia supporre un certo "assemblaggio" da precedenti articoli, non sempre opportunamente, in fase di redazione finale, sfrondati da ridondanze varie, sì da suggerire che il prodotto finale sia al postutto un patchwork un po' frettoloso), il libro si conclude con tre questioni, articolate in dieci temi, che occorre porre al centro della nostra attenzione: 1. lotta alla povertà educativa e alla dispersione scolastica; 2. rilancio dell’autonomia e rapporto con il territorio; 3. le persone al centro dello sviluppo. Tra tutti i temi individuati, spicca per la sua negatività il seguente interrogativo: "bisogna domandarsi se non sia giunto il momento di portare il ciclo secondario da cinque a quattro anni innalzando l’obbligo scolastico – da raggiungere anche con percorsi professionalizzanti che portino a una qualifica – dagli attuali 16 anni (senza riconoscimento di fine ciclo) ai 17. Le molte sperimentazioni già in corso da anni sui licei quadriennali sono in questo senso confortanti". Peccato che il ministro non spieghi in che senso queste sperimentazioni siano "confortanti" (cosa perlomeno singolare in un libro che per il resto trabocca di dati e di cifre). E da parte nostra vogliamo solo sperare che l'attuale situazione di emergenza lo dissuada dal rendere ordinamentale il liceo quadriennale, che rischia di abbattere i già precari livelli di apprendimento evidenziati in modo quasi ossessivo nel corso del libro.