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A mani nude. Combattere per sopravvivere
Mani nude, di Mauro Mancini, è in sala dal 5 giugno, dopo essere stato gradito alla Festa del cinema di Roma nella sezione Grand Public. Il regista ci tiene a presentarlo come un film non violento ma che parla di violenza. Ovviamente per farlo deve mostrarla e lo fa in modo molto incisivo con violente scazzottate, appunto a mani nude, e palese grondare di sangue.
Il film inizia con una delle scene più significative ed inquietanti: un camion, da cui provengono urla di rabbia e dolore, gira in tondo sul terreno sabbioso. Questo movimento circolare fa subito pensare alla lotta giapponese a corpo nudo su pavimento sabbioso, cioè al Sumō, lo sport nazionale del Giappone, i cui partecipanti, dopo essersi afferrati, si affrontano con lo scopo di atterrare o estromettere l'avversario dalla zona di combattimento. Oltre al suolo sabbioso, il Sumō è richiamato dal movimento circolare che è quello compiuto dai lottatori per cercare di squilibrare l’avversario; un altro punto in comune è dato dal fatto che i combattenti sono divisi, come vedremo durante lo svolgersi del film, secondo principi di capacità e forza e non in categorie di peso.
La trama: un egocentrico ragazzo di famiglia ricco-borghese, Davide Bergamaschi, interpretato dall’ottimo Francesco Gheghi, rapito mentre si trova a divertirsi in un locale notturno, viene chiuso in un camion dove qualcuno dovrebbe ammazzarlo di botte, ma è lui a sopravvivere. Allora, vista la sua capacità a mani nude, un boss criminale (Renato Carpentieri, che sembra volutamente sempre impeccabile anche quando fa il delinquente) lo costringe a entrare nel circuito delle lotte clandestine con relative scommesse. Non esistono mezzi termini: o si uccide o si muore. I prigionieri si trovano in una sorta di nave-scuola, anche questa visivamente una ben riuscita torbida location.
Il film è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Paola Barbato, vincitrice del Premio Scerbanenco nel 2008; la poliedrica scrittrice si è detta soddisfatta della trasposizione, commentando intelligentemente che ogni opera è a sé stante. Anche in questo secondo lungometraggio, dopo il successo di Non odiare, il regista ha voluto Alessandro Gassmann, che interpreta con lunghi silenzi, quindi molta espressiva recitazione, lo pseudo-allenatore dei morituri.
Ovviamente, come dice proprio Minuto, il personaggio di Gassmann, nessuno vuole morire, e nessuno dei lottatori perde mai un feroce istinto di sopravvivenza. La parte violenta, che gode di un’ottima regia, con inquadrature che lasciano. senza fiato, ha un ritmo sostenuto e particolari vivide sfumature di colore, mentre il tono del film cambia nella seconda parte, più filosofica e con luci livide che ben danno sensazioni claustrofobiche. Caratteristiche plumbee, riprese esterne, con campi lunghi, sono appositamente studiate per infondere un tono di ineluttabilità alle vicende dei protagonisti.
Altri interpreti dell’amara storia sono: Fotinì Peluso, Paolo Madonna e Giordana Marengo, tutti perfettamente in parte per bravura propria e per felice mano del regista nella scelta del cast e nel dirigerlo con sicurezza. Le lotte sono così brutali che si pensa ai gladiatori, schiavi gettati nell’arena senza scampo, o alle gare clandestine tra cani, tanto sono rabbiosi i lottatori, consapevoli di poter perdere la vita. Così il ragazzo Davide, che nel frattempo si è dato il nome di Batiza, man mano si disumanizza diventando una vera bestia da combattimento: ma è veramente così? La seconda parte del film vira verso il filosofico e impegna la mente del pubblico, quanto la prima va dritta allo stomaco.
Il tutto è enfatizzato dalle metalliche musiche di Dardust, perfette per questa pellicola.