Antonio Ligabue. Dipingere per esistere

Articolo di: 
Giulio de Martino
Ligabue

Fino all’8 gennaio 2017 le sale del Complesso del Vittoriano - Ala Brasini - a Roma ospitano una ricca e accurata mostra di dipinti di Antonio Ligabue (Zurigo, 1889 - Gualtieri, 1965). La mostra è stata promossa dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue e dal Comune di Gualtieri (Reggio Emilia) e curata da Sandro Parmiggiani e da Sergio Negri. Attraverso cento tra dipinti, sculture e disegni la mostra riesce a dare una immagine ampia e affascinante dell’opera di Ligabue - a cinquanta anni dalla sua scomparsa - aggirando gli scontati parametri socio-psicologici improntati all’idea di Ligabue «pittore naïf» e illustratore popolare. Direi che è questa è la funzione principale delle mostre d’arte ospitate dalle prestigiose istituzioni museali e allestite con dovizia di apparati critici e scientifici: proporre al dibattito culturale e alla fruizione attenta del pubblico le opere di un artista, sottraendole alle semplificazioni del mercato dell’arte e ai condizionamenti delle committenze, ma anche alle opinioni – spesso sorpassate e astruse – della critica, che vengono per comodità rilanciate dai mass-media.

Certamente Antonio Ligabue – al principio degli anni ’60 – è stato al centro di un vero e proprio «caso». Poco amato dai critici militanti – interessati di più ai gruppi e alle correnti di neoavanguardia – e etichettato dagli storici dell’arte come genio primitivo dell’arte contadina, Ligabue è stato invece apprezzato da scrittori e letterati fin dagli anni d’anteguerra. Scrissero su di lui, per primo, Luigi Bartolini (importante scrittore e incisore) nel 1941 su “Documento” e poi Giancarlo Vigorelli, che lo presentò a Roma alla galleria “La Barcaccia” nel 1961.

L’attenzione per la pittura di Ligabue nasceva certamente da un bisogno di parresia: dall’intento di integrare nella cultura italiana il mondo degli esclusi e degli emarginati: quali potevano essere i contadini, i pastori oppure i balordi e i folli internati in carceri e manicomi. Da questi strati sociali veniva una voce di verità, una parola sconnessa, ma autentica, che veniva ascoltata e contrapposta alla ripetitiva vuotezza della retorica istituzionalizzata. L’interesse per la pittura di Antonio Ligabue non si esauriva, quindi, nella rievocazione della sua esistenza misera e nella considerazione pietosa del suo dipingere visto come un ingenuo tentativo di sublimazione, ma diventava un vero e proprio apprezzamento estetico e culturale.

La vicenda dell’uomo Ligabue, figura esemplare di disadattato e di scarto della società, è nota. Nato a Zurigo nel 1889, dopo tormentati e inquieti anni di vagabondaggi e di soggiorni discontinui in collegi e istituti di rieducazione, fu espulso dalla Svizzera e, nel 1919, deportato a Gualtieri in Emilia dove visse lavorando come infimo manovale. Fu nel 1929 che fece conoscenza con Renato Marino Mazzacurati (artista della Scuola Romana e poliedrico conoscitore della pittura), che ne comprese il talento di autodidatta visionario e gli insegnò l’uso dei colori a olio e la produzione di quadri di senso compiuto, inserendolo anche nel mercato. 

Pittori spontanei, al modo di Ligabue, ce ne sono stati diversi nel ‘900 italiano: sono stati gli outsiders di quel «sistema dell’arte» che molti proclamano di voler contestare e che contribuiscono a consolidare. Problema critico è l’individuazione della cifra estetica di tali artisti in vista di una più consona valutazione della loro opera nel contesto degli itinerari dell’arte. Ligabue - lo si vede bene sia nei dipinti che nelle sculture - non fu un artista incolto e impreparato, ma piuttosto un pittore e scultore autodidatta, dotato di un originale talento creativo e di indubbia e paradossale genialità. Ma quale è la lettera della rubrica critica in cui collocarlo? Intuitivamente vengono alla mente i fauves, van Gogh e altri artisti che giunsero alla pittura attraverso un percorso di disagio sociale e mentale. 

La categoria, allora, sarà senz’altro quella dell’«espressionismo»: movimento non precisamente codificabile che fu focalizzato in Germania intorno ai primi anni del Novecento e di cui Ligabue ebbe certamente modo di vedere riproduzioni e opere nel periodo in cui viveva nella Svizzera tedesca, tra San Gallo e Zurigo. A questo pensava, nel 1965, Renato Mazzacurati quando definì Ligabue: «non pittore naïf, ma grande artista espressionista». L’espressionismo fu infatti la tendenza di artisti indipendenti e fantasticanti che fecero della pittura il loro unico mezzo per esistere sia nella società sia nella loro stessa mente. Punto di evidenza del pittore espressionista furono gli autoritratti – Ligabue ne dipinse a decine – in cui oggettivavano sé stessi con angosce e tormenti e immaginavano la loro vita come altra. Ed ecco Soutine, Kirchner, Meidner, Heckel, Kokoschka, Van Gogh e Munch. In Italia vengono in mente i nomi di Benvenuto Ferrazzi, esposto l’anno scorso a Villa Torlonia, e del napoletano Camillo Catel.

Decisiva per Cimabue fu anche la visione di quella Tiermalerei (pittura di animali) praticata, in Germania, fra Otto e Novecento – in Italia anche da Giulio Aristide Sartorio, come abbiamo visto nel 2013 alla Galleria Berardi – e che Ligabue tradusse in una visione bestiale e violenta della società: «bellum omnium contra omnes», al modo di una savana africana in cui leopardi e serpenti, tigri e gazzelle si affrontano ogni giorno in una tragica lotta per la sopravvivenza.

Decisiva è la periodizzazione dell’opera di questi pittori anarchici e irregolari che passano, quando sono bravi e geniali, dall’autocommittenza esistenziale e salvifica alla committenza professionale da parte del mercato. Ligabue in un primo periodo (1928-1939), pure primitivo e approssimativo per disegno e colorazione, dipinse il «Circo equestre» – lo si vede in mostra – opera di grande pregio per la composizione d’insieme e per le soluzioni figurative e cromatiche. Dopo che, nell’inverno del 1928-1929, ebbe l’incontro con Renato Mazzacurati, Ligabue ampliò la gamma dei suoi colori: i verdi, i bruni, il giallo cromo e il blu cobalto e pochi i rossi. Abbiamo adesso – pure nella fedeltà ai temi originari della campagna, della foresta e degli animali – una più complessa elaborazione delle forme e una inclinazione verista.  Il terzo periodo include l’ultimo ciclo creativo di Ligabue, dal 1952 al 20 novembre del 1962, quando fu colpito da paralisi nella parte destra del corpo e smise di dipingere. Circa la metà dei circa mille dipinti eseguiti dal pittore nel corso della sua vita sono ascrivibili a quest’ultimo periodo. Tra gli olii esposti in mostra: Carrozza con cavalli e paesaggio svizzero (1956-1957), Tavolo con vaso di fiori (1956) e Gorilla con donna (1957-1958). Da non trascurare le bellissime sculture di animali in bronzo come il Lupo siberiano (1936).

Dagli anni ’50 ebbe inizio il successo commerciale di Ligabue – non propriamente la sua felicità - e una significativa richiesta di opere che lo obbligò a ritmi di lavoro intensi e prolungati. La sua figurazione si fece più complessa, ma anche sintetica e con un maggiore interesse per il tema del quadro rispetto all’espressione pittorica. In questo periodo compaiono dipinti in cui Ligabue sembra trovare una qualche serenità che trasfigura nella rappresentazione tra l’epico e l’idilliaco del lavoro nei campi e nella vita degli animali domestici (in particolare i cani). L’acquisto di una motocicletta Guzzi, con la quale girare per i campi di Gualtieri, divenne per lui occasione per autoritratti non più accigliati e torbidi.

Pubblicato in: 
GN6 Anno IX 9 dicembre 2016
Scheda
Titolo completo: 

Complesso del Vittoriano (Ala Brasini) – Roma

Antonio Ligabue
A cura di: da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri
dall'11 novembre 2016 all'8 gennaio 2017

Orari: Da lunedì a giovedì ore 9.30 - 19.30.
Venerdì e sabato ore 9.30 - 22.00.
Domenica ore 9.30 - 20.30