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Auditorium. Gifuni e Šostakovič, apoteosi per Amleto
All'Auditorium Parco della Musica sabato 8 ottobre in Sala Petrassi abbiamo assistito ad un Amleto molto particolare: il Concerto per Amleto in prima nazionale con la drammaturgia e sul palco Fabrizio Gifuni, che ha scelto uno dei più grandi sinfonici del Novecento, Dimitrij Šostakovič con le sue musiche di scena per l'Amleto teatrale di Nikolai Akimov (1932) e quelle della colonna sonora dell'Amleto di Grigori Kozintsev, che ha vinto a Venezia il gran premio della giuria nel 1964. L'Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta da Rino Marrone ha composto questo mosaico di parole e musica insieme a Gifuni a chiosa della 23° edizione de Le vie dei Festival.
Di fronte ad una platea che non aspettava che lui, Fabrizio Gifuni ha reso uno splendido omaggio non solo all'uomo moderno esplicitato da Amleto attraverso Shakespeare, quelle domande essenziali ancor oggi fagocitate dal dubbio, ma ad uno dei compositori russi – dovremmo dire sovietici perché, nato nel 1906 a San Pietroburgo e morto a Mosca nel 1975, non ha vissuto che in quest'era che ha dipinto il Novecento fino alla sua caduta nel 1989 – più insigni, creatore di quindici sinfonie e di altrettante colonne sonore per film, quartetti, concerti, le Jazz suites, a cui rimandano le Hamlet suites, in particolare la chiosa tra la colonna sonora del film di Kozintsev e l'Amleto scenico e sonoro di Akimov. Ecco, Gifuni, da grande attore quale è ma soprattutto da profondo conoscitore della cultura tutta, in primis musicale, ha fatto una scelta rara, perché unico il caso in Italia di un simile duetto tra l'attore che interpreta Amleto e l'orchestra le suites di Šostakovič, che tanto rispecchiano quest'ultimo nella sua struggente sensibilità, nella fragilità dalle mille sfaccettature di cui abbiamo goduto sulla scena, ad ogni sferzata degli archi, ad ogni approssimarsi tenebrosa della voce.
L'avvio proviene dalla colonna sonora del film di Kozintsev, l'opera 116, e, come usuale, le sferzate degli archi insieme alle marcette sardoniche preparano il terreno alla tragedia che si va enucleando, congiuntamente ai due motivi principali, sonori e letterari: “Il tempo è un bambino che gioca, il regno di un fanciullo: the play is the thing, il gioco è la cosa con cui prenderò la coscienza del re”, ovvero di Amleto, ancora in lutto dopo tre mesi dalla morte del padre, e dalle recenti nozze della madre con lo zio. La vendetta cui lo spinge lo spettro del defunto padre ucciso da suo fratello e zio di Amleto, fa diventare Amleto il “detentore della verità" – compito pericoloso per chiunque, a cosa può spingere ritenendolo oltremodo giusto?, N.d.R. - e gli fa fingere di essere pazzo per esprimerla. La rabbia sale insieme alla ferocia contro l'incesto della madre: “l'orgia d'amore di mio zio raglia nel bicchiere”, urla Amleto.
Il terzo motivo è di nuovo intorno al tempo e connesso all'incipit: “Time is out of joint”, il tempo è fuori portata, oppure “Il secolo è fuori dai cardini” come afferma Gifuni nel suo adattamento, in cui lui recita in tutte le parti con delle modificazioni alla voce impressionanti. Il tempo di un valzer ed ecco un'altra marcetta sardonica che sbuca poi in un allegro. “Maledetto destino che io sia nato per rimetterlo in sesto”, il tempo fuori dai cardini, o tempo fuor di sesto, rimanda anche al titolo omonimo di un romanzo di Philip K. Dick del 1959 in cui si fa credere al protagonista di vivere in un ambiente per sottrarlo al regresso mentale che lo aveva colpito. Qui, al contrario, la follia recitata di Amleto diventa reale e, come ogni fool del Bardo, continua a ripetere la verità:”Di questi tempi la virtù deve chiedere scusa se solo mette il naso fuori” (alla madre fedifraga).
Spinti nel metateatro più assoluto, archetipo di sé stesso, Amleto proferisce: “Il teatro sarà per me l'accalappiacoscienza del re”, e sarà così che ottiene la controprova della colpa dello zio e della madre. Le sarabande del russo saranno specchio complice e duplicativo delle riflessioni ondivaghe e torturanti del primo complesso edipico moderno dopo Sofocle: per noi lettori è Amleto che ci rende chiaro il dilemma di everyman mentre ripete: “Ci sono più cose in cielo ed in terra, Orazio, che nel tuo filosofare.”
Una struggente melodia per Ofelia ed il suo canto nell'assolo del primo violino femminile (di cui non sappiamo purtroppo il nome) si eleva per dare respiro ai dialoghi di Amleto coi suoi amici, nemici, parenti morti più vivi che quelli sulla terra. E nel cimitero troverà lei che ha amato ma non abbastanza per farlo desistere dal suo tragico proposito.
La morte, il duello, con lo sterminio della famiglia del re di Danimarca e l'entrata del nemico norvegese, Fortebraccio, non è che un epilogo annunciato fin dall'inizio dai glissando degli archi, inseme alle tenebre fantasmatiche di Gifuni, apoteosi di una crasi organica infinita tra il dramma di Shakespeare e le note di Šostakovič.