Galleria Borghese. La natura sacra di Guido Reni

Articolo di: 
Daniela Puggioni
Guido Reni. In primo piano Il martirio di santa Caterina d'Alessandria

A Roma la Galleria Borghese ospiterà fino al 22 maggio la mostra Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura a cura di Francesca Cappelletti dedicata agli anni in cui l’artista bolognese fu attivo nell’Urbe.

Strano destino quello di Guido Reni (1575-1642) fu un artista celebrato per secoli come incarnazione della perfezione e della bellezza fino a essere accostato a Raffaello, ma la sua fama fu offuscata dall’aspro giudizio che nel 1844  John Ruskin, che detestava la pittura classicista e devozionale del Reni e di quanti seguirono le sue orme, diede della sua pittura:" priva sia di arte che di decenza". Solo nel secolo scorso la critica più accorta di Hermann Voss e Roberto Longhi lo valutò diversamente, ma la svolta avvenne nel 1954 alla grande mostra a Bologna dedicata al Reni curata da Cesare Gnudi.

Questa esposizione, la prima dopo più di 30 anni, precede una serie di mostre internazionali a lui dedicate, la curatrice, Francesca Cappelletti, che ha lungamente studiato il collezionismo italiano tra rinascimento e ottocento, ha voluto focalizzarsi su un aspetto trascurato del pittore, il rapporto con il paesaggio e il genere del soggetto campestre nel periodo che l’artista bolognese trascorse a Roma. La Cappelletti è anche la direttrice della Galleria Borghese in cui è recentemente tornato il dipinto Danza campestre di Guido Reni, che è già citato negli inventari dal 1600 della collezione del cardinale Scipione Borghese. Fu  venduto nel 1800, e poi disperso, riapparve nel mercato antiquario londinese nel 2008 come anonimo bolognese, in seguito gli studi hanno attribuito nuovamente l’opera all’artista, che l’avrebbe dipinta durante il soggiorno romano ed è stata acquistata dalla Galleria Borghese.

Guido Reni arrivò ventiseienne a Roma con alle spalle una formazione prima nella bottega del fiammingo Denijs Calvaert dove incontrò Domenico Zampieri, detto Domenichino (1581-1641), e Francesco Albani (1578-1660),  testimonianze che ci sono pervenute dalla biografia di Carlo Cesare Malvasia (1616-1693), di cui da poco è uscita l’edizione critica e a cui dobbiamo molte delle notizie sull’artista. Sempre Malvasia racconta come verso i venti anni abbandonò la bottega di Calvaert per entrare in contatto con l’Accademia degli Incamminati fondata da Ludovico Carracci (1555-1619) insieme ai cugini Agostino (1557-1602) e Annibale (1560-1609) prima col nome di Accademia dei Desiderosi poi divenuta Accademia degli Incamminati, che in opposizione alla “Maniera” dava forma d’arte al rigore religioso bolognese, basato sui principi enunciati dal Concilio di Trento (1545-1563). Lo scopo su cui si fondava la pittura di Ludovico era di ispirare e muovere la devozione religiosa soprattutto nel popolo, analfabeta, che quelle immagini le vedeva nei luoghi di culto. Nel giovane Reni profondamente religioso questa visione trovò un’intensa adesione. Il pittore si fece conoscere a Bologna e il suo successo forse lo mise in contrasto con Ludovico, come suggerisce Malvasia, cosa che determinò la sua partenza per Roma, dove tra gli altri già operavano Agostino e Annibale Carracci.

Gli echi di questa iniziale formazione sono  presenti sia nei paesaggi delle opere religiose che in quelle di genere presenti in questa mostra in cui sono esposte le opere realizzate a Roma o comunque nel periodo in cui Reni  vi fu maggiormente attivo. L’Urbe fu una tappa decisiva per la visione e lo studio delle opere di di Caravaggio e Raffaello e delle sculture. Il Malvasia gli attribuisce la frase: “Che virtù infusa? Con incessante studio e con ostinata fatica si acquistano questi doni, non si trovano già a sorte, né si ereditano dormendo […] Ho studiato più che quanto altri mai s’abbia fatto, negandosi sino alla stanchezza il notturno e necessario riposo”.

La mostra è articolata sui due piani della Galleria, in dialogo con le opere scultoree e pittoriche della collezione permanente, nel salone di ingresso sono esposte significative pale di altare la cui vista è però penalizzata dallo spazio ristretto, inoltre l’illuminazione pensata per la collezione permanente non è sempre adatta alle pitture in esposizione. Il Martirio di Santa Cecilia fu dipinto per la chiesa dedicata alla Santa in Trastevere su commissione del cardinale titolare, Paolo Emilio Sfondrato, nipote del papa Gregorio XIV che probabilmente lo aveva invitato a venire a Roma. Il cardinale lo aveva incontrato precedentemente a Bologna  1598 e gli aveva commissionato la copia dell’Estasi di Santa Cecilia con quattro santi di Raffaello, ora a San Luigi dei Francesi, dipinto che lo aveva fatto conoscere prima del suo arrivo a Roma, dove rimase fino al 1614 quando tornò definitivamente a Bologna. Il Martirio di Santa Cecilia (1601) è una sintesi personale tra l’armonia raffaellesca e la sua personale interpretazione della pittura devozionale di Ludovico. Il martirio di Santa Caterina d’Alessandria (1605-1606) proveniente dal Museo diocesano di Albenga e dipinta per il banchiere ligure Ottavio Costa, importante mecenate anche di Caravaggio, ricorda in molti aspetti il Martirio di Santa Cecilia nell’espressione del volto della santa, il carnefice e gli angeli sono arricchiti di particolari ma sostanzialmente l’unica differenza è il tempestoso paesaggio sullo sfondo, ma sui paesaggi torneremo dopo.

Nella stessa sala in corrispondenza con l’entrata che ne permette una migliore visione c’è un dipinto straordinario: La crocifissione di San Pietro (1604-1605), realizzato su commissione del cardinale Pietro Aldobrandini per la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, un prestito dei Musei Vaticani. Secondo il Malvasia sarebbe stato il Cavalier d’Arpino a suggerire il soggetto per danneggiare il Caravaggio; nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, infatti, è esposta la tela sul medesimo soggetto del Merisi. Del resto la personalità di Caravaggio, il suo crudo realismo ebbe una vasta eco tra gli artisti che conobbero le sue opere; il Merisi non ebbe allievi ma seguaci o comunque influenzò molti artisti. Nel quadro del Reni i corpi sono scultorei, è realistico come Caravaggio, ma senza i violenti contrasti di luce del Merisi né i dettagli troppo vicini alla realtà come i piedi sporchi del carnefice. Un altro importante committente fu il cardinale Antonio Maria Gallo che gli commissionò la Trinità con madonna di Loreto e il committente cardinale Antonio Maria Gallo(1603-1604) proveniente da Osimo, città di origine del prelato che ne divenne vescovo. Completa i dipinti nella sala lo Stendardo della Confraternita delle Sante Stimmate (1602-12) del Museo di Roma.

Le altre opere del pianterreno sono disposte singolarmente nelle diverse sale, in quella dove si trova della statua di Paolina Borghese, ritratta da Antonio Canova come Venere vincitrice, c’è la tela San Paolo che rimprovera San Pietro penitente (1609 circa) prestito della Pinacoteca di Brera. Il quadro fu molto ammirato per la bellezza compositiva e coloristica e l’intensità espressiva degli sguardi dei due protagonisti. Le membra scultoree, il realismo ma senza i contrasti violenti di luce di Caravaggio e il paesaggio cupo è il filo conduttore di molti dei dipinti esposti. Un esempio di ascendenza caravaggesca è il David con la testa di Golia (secondo decennio del XVII secolo) degli Uffizi giustamente messo nella sala del David di Gian Lorenzo Bernini.  Per il dinamismo della scena forse si è scelto di porre La strage degli innocenti (1611), nella sala dell’Apollo e Dafne, sempre del Bernini. Il quadro è un capolavoro giustamente ammirato, fu commissionato dalla famiglia Berò per la cappella nella chiesa in san Domenico a Bologna ma fu dipinto a Roma.

In questo dipinto l’impronta raffaellesca è palese nelle architetture antiche sullo sfondo, nella classicità dell’armonioso equilibrio presente nel dinamismo di una scena violenta e concitata. La scena è ispirata al gruppo marmoreo di Niobe e i Niobidi, suoi figli uccisi da Apollo e Diana per punire la protervia della donna, che si era scioccamente vantata di avere più figli di Latona, madre delle due divinità. Due gruppi di figure si contrappongono, il braccio del carnefice, che impugna il pugnale, centrale in primo piano è il simbolo dell’atroce avvenimento. In un incrocio di diagonali in secondo piano ci sono il braccio della madre che tenta di difendere il figlio e il braccio dell’altro carnefice che afferra le chiome di un’altra che tenta di fuggire e al centro, immagine di una disperazione immensa, la madre accanto ai cadaveri dei figli. Due angioletti, che dispensano le palme del martirio, si affacciano dal cielo sereno del Paradiso dove andranno i bimbi che la Chiesa considera santi. Un gioco di linee oblique di braccia e gambe per evidenziare la dinamicità della scena è presente anche nella tela Atalanta e Ippomene (1615-1618 circa) del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli. I corpi scultorei luminosi che spiccano sullo sfondo scuro in cui il paesaggio è appena accennato sono nel segno dei contrasti di luce del Merisi, la cui eco è anche  in Lot e le figlie, (1615-1616 circa) prestigioso prestito della National Gallery di Londra, messo opportunamente nella sala che ospita le opere di Caravaggio.

Al primo piano nella Loggia del Lanfranco sono ospitati i paesaggi in una collocazione non sempre appropriata per la luce, è presente la Danza campestre (1605-1606) del Reni insieme ad opere di artisti che il pittore bolognese incontrò negli anni del suo soggiorno romano tra il 1601 e 1614. Grazie ai prestiti e ai quadri della collezione della Galleria Borghese c’è un ampia varietà della pittura del paesaggio in quegli anni, sono opere di ridotte dimensioni realizzate anche su rame. Nella Danza campestre del Reni sullo sfondo di un ameno paesaggio nobili e e contadini danzano insieme, è anche in mostra la Festa campestre (1584) di Agostino Carracci, sono soggetti simili ma è interessante vedere come vengono diversamente declinati, come colori, luce e composizione. Sono anche poste in evidenza le opere di Paul Brill della Galleria, guardando i colori  e le trasparenze del cielo e i paesaggi del fiammingo si intuisce l’affinità con i paesaggi anche delle pale di altare del Reni, che pure aveva iniziato il suo apprendistato con un altro fiammingo, Calvaert.

Del Reni ci sono diverse opere, alcune devozionali per il culto privato, come Il martirio di Sant’Apollonia e la Sant’Apollonia in preghiera, entrambe realizzate tra il 1600 e il 1603, ma anche soggetti religiosi in cui si aprono splendidi squarci di paesaggio: San Girolamo con due angeli (1601-1603) e Il ritorno dalla fuga in Egitto, (1602-1603) entrambi su rame e infine il  delizioso Paesaggio con scherzi di amorini (1603 circa). Alcune opere di Francesco Albani di soggetto mitologico della collezione della Galleria sono in questa sezione della mostra con quelle del Reni, un dialogo tra ex compagni di apprendistato, inoltre il visitatore del museo troverà nella vicina sala di Elena e Paride La caccia di Diana (1615-1616) del Domenichino, un altro sodale della bottega di Calvaert, un dialogo tra diversi modi di interpretare la natura.

Non finisce qui, per chi volesse vedere le opere del soggiorno romano di Guido Reni,  a Roma si trovano altre opere, a testimoniare le prestigiose committenze, meravigliosi ma inamovibili affreschi dell’Aurora realizzata per il Casino (oggi Palazzo Pallavicini Rospigliosi) del cardinale Scipione Borghese. grande committente e avido collezionista senza scrupoli, quelli di San Gregorio  al Celio, quelli della Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore, quelli della Cappella dell’Annunciata al Quirinale e la Sala delle Nozze Aldobrandini nei Musei Vaticani.

Pubblicato in: 
GN19 Anno XIV 16 marzo 2022
Scheda
Titolo completo: 

Galleria Borghese

“Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura”
Dal 1° marzo al 22 maggio 2022

Orario: da martedì a domenica, ore 9-19 (turni d’ingresso ogni ora, ultimo ingresso alle 17,45), chiuso il lunedì. Prenotazione obbligatoria: +39 06 32810