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Opera di Roma. Pagliacci, il metateatro degli Ultimi
Uno dei drammi veristi portati in scena al Costanzi con maggior successo: Pagliacci, con la musica ed il libretto di Ruggero Leoncavallo del 1892, commemora la nascita di Franco Zeffirelli che nel 1992 al Teatro Costanzi la presentò in questa versione per la prima volta. Dal 12 al 19 marzo il direttore Daniel Oren dirige l'Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma di nuovo, dopo tredici anni di assenza.
Per questa tragedia del teatro nel teatro, ambientata in una Calabria poverissima, nel paesino di Montalto nel 1865, il compositore si disse ispirato ad una faccenda raccontatogli dal padre magistrato, invero un po' inventata e probabilmente in parte tratta dal da La femme de Tabarin del parnassiano Catulle Mendès, che coincide quasi del tutto con la trama di questo “delitto d'onore” che vede protagonista e vittima la moglie fedifraga del capocomico. La trama di quest'opera in un prologo e due atti è la seguente: Nedda, moglie di Canio, s'infatua del bel Silvio e promette di fuggire con lui. L'incontro è però osservato da Tonio, che aveva dichiarato il suo amore a Nedda poco prima, cacciato e preso in giro da lei, aveva promesso di vendicarsi. Tonio racconta tutto a Canio che assiste alla scena finale della promessa d'amore tra sua moglie Nedda e Silvio, lo insegue ma non riesce a prenderlo, vuole il nome dalla moglie che lo nega. Interviene Beppe per calmarlo e inizia dopo poco la rappresentazione del dramma nel teatro dei “Pagliacci”. Ci fermiamo qui per raccontare poi la fine.
Il Teatro del Verme di Milano il 21 maggio 1892 vide la prima assoluta di Pagliacci, due anni dopo approdò al Costanzi: il successo fu unanime, è così rappresentativa della “gente umile d'Italia” questo dramma che non poteva essere altrimenti. Sia la musica, effettistica, travolgente nelle sue virate sonore inframmezzate da melodie cantabilissime e commoventi, financo dal Prologo annunciativo della fatalità. Un Dostoevskij de noantri, - cfr. Povera gente, 1846 - che dipinge quel popolino che a fine Ottocento andava a gustarsi i clown nella piazza che, semplice, non aveva di grandi ambizioni se non terminare col pane sulla tavola la settimana, pensiamo a Van Gogh che dipingeva vent'anni dopo I mangiatori di patate (1885).
Le luci della ribalta, coloratissime, di Vinicio Cheli, insieme ai costumi, in parte semplici in parte carnascialeschi e ricchi di strass quelli dei pagliacci, a firma di Raimonda Gaetani, fanno brillare le scene e la regia di Zeffirelli ripresa da Stefano Trespidi. Una tristezza che inonda la scena a sipario chiuso con Tonio, il pagliaccio gobbo e orribile financo nell'animo, che narra di una realtà ineluttabile, scritta nei solchi di aride terre bagnate da un sole cocente, avido come chi regna dall'alto e stabilisce (o crede di stabilire) la sorte dei suoi sottoposti. Una versione “verista” della storia calcata fino all'ultimo da Leoncavallo. Ecco il perchè della crudezza degli animi, di Canio che, scoperto il tradimento della moglie – orfana trovata per strada, quindi ora dimostratasi “ingrata” del “favore” ricevuto di certo da uno piu' vecchio di lei – vuole il nome di lui per ucciderlo; lei, Nedda, che si ostina a celarlo e quindi a voler salvare ques'unica delizia della sua vita; Tonio e la sua vendetta senza scrupoli, fino alla spinta al duplice omicidio di Canio; lo stesso stesso impedire a Beppe - bravo Matteo Falcier, l'altro clown di intervenire, è dovuto a questa proterva, sadica consolazione per Tonio, nel massacro, di mettere tutti contro tutti.
In questa magnifica rappresentazione della stoltezza umana, della sua eterna debolezza, comprensibilissima, è il nodo di questa tragedia: un giogo che riguarda gli ultimi, poiché Canio (quasi un'anagramma di “Caino”), Silvio, e Nedda son tutti dei perdenti, dei clown nella vita e sulla scena. La Colombina che Nedda interpreta fa il paio con l'Arlecchino di Beppe ed il Pagliaccio di Canio, chiamato così poiché la sua parte è appunto quella di un povero preso in giro dalla sua credulità, come chiunque però, non solo lui; le loro voci, il bravo soprano georgiano Nino Machaidze nel ruolo di Nedda, magnifica in Qual fiamma aveva nel guardo, e poi nel duetto con il baritono Vittorio Prato nel ruolo di Silvio, con cui vi era grande affiatamento; Canio, interpretato dal tenore americano Brian Jagde, che ha già calcato l'Arena di Verona nel 2022, ha voce e presenza scenica, emozionante il suo “Vesti la giubba” e “Pagliaccio non son io”. Amartuvshin Enkhbat, baritono mongolo che conosciamo da anni, è potente e drammatico nel suo doppio ruolo di Tonio-Taddeo: in particolare il Prologo, aperto dagli ottoni, che voglio citare: “Le nostr'anime considerate, poiché noi siam uomini di carbe e d'ossa, e che di quest'orfano mondo, al pari di voi spiriamo l'aere!”
Il Maestro Daniel Oren ha fatto vibrare tutta l'Orchestra in un unico canto, conoscendola ed essendo riconosciuto, in un vibrante abbraccio che ha contemplato il pubblico tutto,inondando il teatro di calorosi applausi.