Patricia Kopatchinskaja a Santa Cecilia. Il corpo elettrico

Articolo di: 
Teo Orlando - Livia Bidoli
Patricia Kopatchinskaja

Giovedì 11 aprile 2024 la Sala Santa Cecilia dell'Auditorium Parco della Musica ha avuto l'onore di ospitare la prima esecuzione italiana di Corpo elettrico, terzo concerto per violino e orchestra del compositore Luca Francesconi. A dirigere l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia il Maestro Maxime Pascal. Al violino un'interprete straordinaria: la moldava Patricia Kopatchinskaja. Il concerto è poi proseguito con alcune celebri pagine di Maurice Ravel (l'Alborada del gracioso e il Boléro) e di Claude Debussy (Ibéria).

Lo stesso compositore compare sul palco per introdurre brevemente la sua pièce, sottlineando che "non tutti i compositori sono morti". E si è premurato di comunicare che il suo concerto va ascoltato sia con la testa sia con la pancia, perché, a suo dire, comunica l'energia che sperimentiamo ogni giorno. Si tratta della quarta opera del compositore milanese per violino e orchestra (dopo Vertigo, Riti neurali e Duende. The Dark Notes). Oltre agli strumenti tradizionali, e al violino acustico, figurano un basso elettrico, quattro tastiere elettroniche e un sintetizzatore.

L'opera, composta tra il 2019 e il 2020, deriva da una commissione dell'Orchestra sinfonica di Bamberga, della Casa della Musica di Porto, della Filarmonica di Radio France, dell'Orchestra sinfonica di Barcellona, delle orchestre statunitensi di Cincinnati e Los Angeles e dell'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Patricia Kopatchinskaja è sia la dedicataria, sia la destinataria del pezzo, ed è sempre stata lei a eseguirlo nelle poche occasioni in cui è andato in scena, dopo la battuta d'arresto a causa del blocco delle attività per le misure d'emergenza. E non è un caso che fin dalle due prime battute (una figura di due suoni, lunga-breve, la-sol diesis) la natura del brano tradisce la sua anima rumeno-mitteleuropea, ammiccando alle origini della celebre violinista, che, come di consueto, si esibisce a piedi scalzi e con vestito di raso bianco.  A metà esatta della composizione troviamo una pausa dopo un segmento quasi "lunare" affidato al flauto. L'orchestra cerca di dialogare con la solista, che però procede per conto suo, quasi a scandire una certa incomunicabilità e ad ammiccare al materismo della musica concreta di Helmut Lachenmann. La forte personalità di Patricia la porta alla fine a prevalere sull'orchestra, tramutando il violino acustico in uno strumento quasi elettrico, a ricordare il titolo del brano. Titolo che, peraltro, ci rimanda a tre opere dallo stesso titolo (I Sing the Body Electric): un poema di Walt Whitman (1855, in Leaves of Grass), un disco del gruppo fusion Weather Report (1971) e un racconto breve dello scrittore di fantascienza Ray Bradbury, dove una "nonna androide" conquista faticosamente l'affetto dei suoi "nipoti", come Patricia deve fare con l'orchestra.

E in effetti, nella seconda parte, quando secondo i tradizionali moduli concertistici ci aspetteremmo una riconciliazione tra attori che fino ad allora avevano parlato lingue diverse, accade l'inaspettato. Mentre da vari punti della sala si diffondono suoni quasi alieni, prodotti da musicisti nascosti in vari punti di platea e galleria, allo strumento solista viene applicata una pedaliera che produce effetti distorsivi: il violino acustico diventa un "violino preparato". Patricia usa il violino quasi generando un universo "chimico" di elettroni e protoni infuocati che schizzano da ogni parte, quasi come la chitarra elettrica di Jimi Hendrix, nei momenti più eccitati, o come le Frippertronics di Robert Fripp, in quelli meno movimentati.

Poco prima della fine, quando di solito ci si aspetta un momento virtuosistico della solista, ci troviamo invece di fronte alla rarefazione del quasi silenzio, con una pausa anche nei gesti del direttore, Maxime Pascal, che non dà il là a nuovi attacchi. Nella parte finale, Patricia abbraccia il violino e quasi lo accarrezza con le mani e con l'archetto, ringranziando così orchestra, direttore e pubblico.

Dopo l'intervallo, Patricia esce di scena e rimangono il direttore con l'orchestra. Attaccano subito l'Alborada del gracioso di Maurice Ravel (1875-1937), originariamente brano per pianoforte, dai cinque Miroirs composti dal musicista francese nel 1905, e poi adattato per orchestra nel 1918. Non dimentichiamo che Maurice Ravel era di origine basca, e come tale fu eminentemente influenzato dalla sua terra d’origine ai confini con la Spagna: il brano è dedicato a Michel-Dimitri Calvocoressi, uno dei compositori del gruppo impressionista Les Apaches (anche gli altri movimenti sono stati dedicati ognuno ad uno dei membri di Les Apaches), nato intorno al 1900, e di cui facevano parte sia Igor Stravinskij sia Manuel de Falla. Il brano fa riferimento nel titolo ad una mattinata con una sorta di clown (il “gracioso” del titolo), dipinta nel tessuto musicale con estrema brillantezza e la direzione di Maxime Pascal, decisa e vivace. Intimo e aggraziato, fa pensare nelle variazioni anche a timbri mediterranei che terminano in una rutilante coda briosa.

Segue poi Ibéria, composizione tipica dell’impressionismo immaginifico di Claude Debussy (1862-1918), appartenente alle Images per orchestra (1905-1912), benché inizialmente scritte solo per pianoforte. L’ineffabilmente evocativo mondo delle correspondances di Charles Baudelaire (cfr. le “foreste di simboli”, forêts des symboles, dell’omonima poesia), tra suoni ed immagini e parole, qui trova la sua apoteosi più vibrante. L’emotiva scissione dei suoni in décors (nel senso di arredi) mentali assorbe l’ascoltatore in mimetico assmeblaggio con la musica. Ibéria (1905-1908), la terza Image, si scompone in tre parti: Par les rues et par les chemins, Les Parfums de la nuit e Le matin d'un jour de fête. Il tema principale è un fuoco d’artificio ritmato dalle nacchere, a ricordare l’origine ispanica, e la sua ripresa indefessa irrora di ancor più diafane caratteristiche Les Parfums de la nuit, dove gli oboi stemperano e liricizzano questo episodio. La celesta evoca paesaggi indefinibilmente incantevoli per poi aumentare il ritmo nel fulgido terzo brano, un andante di marcia con i tocchi dello xilofono che si alternano al ridondare dei fiati e delle percussioni. Maxime Pascal ha diretto con suprema perizia questo parto dell’elegiaca sublimità immaginifica di Debussy.

Il brano conclusivo è il celeberrimo Boléro (1927), sempre di Maurice Ravel: nasce come musica per balletto commissionata dall’attrice e ballerina Ida Rubinstein ma la sua fama è andata ben oltre, realizzandosi come brano autonomo di sorprendente fascino. La ripetizione ossessiva, delicatissima e lenta all’inizio di uno stesso tema – suddiviso in due frasi distinte di 16 battute ciascuna, l'una in do maggiore, l'altra nel più morbido do minore – e un unico ritmo di bolero in tempo assai moderato con un crescendo che coinvolge, allargandosi, a tutta l’orchestra, hanno il sapore di una grande cavalcata erotica sulle ali di un desiderio che si nutre di incrementi progressivi. La reboante ripresa e coda finale segnata dagli orgiastici glissandi dei tromboni è condotta egregiamente dal direttore, che ha mantenuto costante il ritmo in salita nei tempi indicati da Ravel (lenti: Ravel protestò con Toscanini per la sua conduzione rapida nei tempi, all’Opéra di Parigi il 4 maggio del 1930). Applausi convinti del pubblico, alla fine di un concerto che è riuscito a veicolare il nuovo sperimentale, addolcendolo quasi con alcuni classici del primo Novecento che ormai suonano rassicuranti per le orecchie abituate a una certa loro ciclicità.

Pubblicato in: 
GN24 Anno XVI 21 aprile 2024
Scheda
Titolo completo: 

Roma, Auditorium Parco della Musica, 11 aprile 2024
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Direttore Maxime Pascal
Violino Patricia Kopatchinskaja

Luca Francesconi: Corpo elettrico
prima italiana – co-commissione Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Maurice Ravel: Alborada del gracioso
Claude Debussy: Ibéria
Maurice Ravel: Boléro