Parsifal al Regio di Torino. La purezza sapiente della compassione

Articolo di: 
Livia Bidoli e Simone Vairo
Parsifal

Nel Teatro Regio di Torino, dal 26 gennaio al 6 febbraio 2011, l’ultimo capolavoro di Wagner, il Parsifal, terminato nel 1882 a Palermo (dove aveva ambientato il primo, Das Liebesverbot, 1836), ha calcato le scene con la regia di Federico Tiezzi e la direzione di Bertrand de Billy, ma soprattutto le voci di Frank van Aken per il Parsifal, Kurt Rydl in quelle di Gurnemanz insieme all’esaltante Kundry del soprano Heidi Brunner (serata del 29 gennaio 2011).

Scrivendo del Parsifal non si può prescindere da una disamina a grandi linee della storia del libretto scritto da Richard Wagner e fortemente influenzato dalla versione di Wolfram von Eschenbach del 1210 del Parzival piuttosto che da quella, più connessa al ciclo arturiano, di Chrétien de Troyes, intitolato Perceval ou le Conte du Graal (1180).

Concepita per il teatro di Bayreuth, Bayreuth Festspielhaus, il luogo di culto eretto secondo l’idea wagneriana sostenuta fortemente da Re Ludwig II di Baviera (1845-1886) anche finanziariamente, il Parsifal, l’ultimo dei drammi musicali di Wagner,  era la Bühnenweihfestspiel, la rappresentazione scenica sacrale che concettualmente rendeva l’apice wagneriano completo, sia nel senso di ciclo, sia nel senso musicale, innervandosi esso sul coacervo di motivi innestati nel Preludio, grande ed ampia prova che nelle pause racchiude l’anelito per l’infinito di matrice spiccatamente romantica (la Sehnsucht).

Il Preludio, a sipario chiuso mostra un reticolato simmetrico a scacchiera dove un uomo assorto con le mani giunte sulla testa sembra prostrato da uno stato di angoscia. Le scene di Giulio Paolini, pensate d’accordo con il regista Federico Tiezzi, fanno risaltare il pensiero portante centrale: il “non sapere” di Parsifal, la sua inconsapevolezza di essere un predestinato al sacro Graal, lasciato vivere in mezzo alla foresta dalla madre Herzeleide (il cui nome non a caso significa “dolore del cuore”) per salvarlo dal pericoloso fato che lo destina a cavaliere del Graal (e quindi ad essere ucciso in battaglia come è successo al marito di Herzeleide, Gamuret).

L’inconsapevolezza del puro folle (così la traduzione etimologica wagneriana del nome Parsifal) è tracciata come fortemente “umana” in mezzo alle simmetrie che denotano il sipario prima di sciogliersi in altre figure ed in colonne ancora più essenziali nel loro veicolo segnico.

Nel Preludio, magnifico nell’ascolto con i Wiener Philharmoniker a Roma in San Paolo fuori le Mura questo Natale 2010 diretti dal giovane Andris Nelsons, sboccia prima di tutto il motivo portante di tutta l’opera sia a livello musicale, sia a livello di concezione. Qui il direttore De Billy ci sembra poco a suo agio soprattutto per le pause un po’ troppo prolungate, mentre nel cantato si dimostra più sincronico e sicuro. Il motivo del Liebesmahl, l’agape o banchetto d’amore, che sboccia nel Preludio in la bemolle maggiore, è fonte sorgiva di altri due motivi essenziali allo svolgimento del musikdrama: quello della ferita di Amfortas, in semitono ascendente e poi discendente; quello della lancia, composto da tre note discendenti. A Parsifal viene raccontata parte della storia introduttiva da Gurnemanz, un eccezionale Kurt Rydl in splendida forma in tutti gli atti, che conferisce colore e vigoria alla storia narrata.

Un luogo cimiteriale su sfondo nero accoglie i nostri occhi, essenziale, con due statue di Hermes, il comunicatore, opera di Prassitele, un doppio per Parsifal che s’aggira perduto nella foresta. Appare Kundry, la magnifica da ovazione Heidi Brunner, soprattutto nel duetto del II atto, che interroga e cerca d’aiutare Amfortas, il bravo e addoloratissimo (come richiede la parte) Kay Stiefermann. Parsifal regge molto bene il confronto sia per voce sia per recitazione, Frank van Aken si trova impegnato nella parte laboriosa del puro folle.

Parsifal rimane sconvolto senza capire alla vista di Kundry stesa a terra, quasi annientata dal peso del peccato e dall’aspirazione alla redenzione (che sarà sviluppata pienamente nel II atto e fa capolino nei “balsami” che cerca di portare alla piaga peccaminosa di Amfortas). E’ Gurnemanz che racconta del Montsalvat, il maniero dei cavalieri del Graal, sorta di monastero tra i Pirenei di Francia e Spagna, baluardo della fede, dove vivono i “monaci buddisti” nei costumi di Giovanna Buzzi, come nella concezione “intellettuale” e schopenhaueriana di Wagner, a difesa dei valori cristiani rappresentati dalla cerimonia del nutrimento materiale e spirituale che concede loro la coppa del Graal.

Il Graal, come leggiamo nelle pagine di Gilbert Durand, è un: “piatto carico dei nutrimenti di un pasto rituale, vaso di rigenerazione che ridà vita al Re Pescatore (Amfortas in questo caso, N.d.C.)” (Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari, 1972, p.255). Il Graal, la coppa che ha contenuto il sangue dì sgorgato dalla ferita al costato di Cristo, provocata dalla lancia, è, unito ad essa: “compendio, un microcosmo della totalità del cosmo simbolico” (Ivi, p.256). Ecco perché anche in Wagner i due motivi conduttori sono fortemente relazionati l’uno all’altro, rilucendo nella scena della cena dei cavalieri del Graal a rinnovare il miracolo della fede (motivo della Fede che irrompe in sonorità altissime ed in “fortissimo”).

Prima dell’agape d’amore eucaristico Gurnemanz rimprovera Parsifal per aver ucciso un cigno selvatico durante il Venerdì Santo (motivo sacro e solenne del Venerdì Santo che risuona). Parsifal non capisce e Gurnemanz ha la premonizione che possa essere lui il predestinato “puro folle” a sanare la ferita di Amfortas procurata dalla lancia che Klingsor gli ha rubato dopo averlo fatto sedurre da Kundry (non è esplicito ma è suggerito dalle circostanze). A questo punto Parsifal viene invitato a partecipare al rito dell’Ultima Cena ed all’esposizione del Graal che si presenta come un triplo rombo con al centro una clessidra simbolo dello spazio-tempo annullato dal Graal nel ritmo cosmico dell’universo.

Durante il banchetto Parsifal, in bianco come Amfortas dolente per la ferita, che viene di forza costretto dal padre Titurel, con la voce piena di Arutjun Kotchinian, a officiare l’eucaristia, il “puro folle” assiste muto e inconsapevole. La monumentale luminosità del motivo del Graal derivato dall’Amen di Dresda si riconosce immediatamente: un effluvio ascensionale di matrice luterana che compare anche nella Sinfonia 1, La Riforma di Mendelssohn.

Amfortas alza il simbolo del Graal verso il cielo e la luce si effonde tutta: lui ricorda e soffre del suo peccato per svenire alla fine. La redenzione di Amfortas che avverrà attraverso il “puro folle” viene ricordata epifanicamente dai Cori diafani delle Voci Bianche dirette da Claudio Fenoglio per convincere Amfortas ad alzare il Graal verso il cielo: “Sapiente per pietà, il puro folle, attendilo, io lo scelsi! Il puro folle, colmo di pietà, attendilo!” Cui i bravi cavalieri del Coro diretto ancora da Fenoglio rispondono, confermando: “Così ti fu promesso: attendi con fiducia, compi oggi il rito!

Riconoscendo la redenzione nella pietas cristiana a conclusione del Primo Atto possiamo direttamente citare da Arthur Schopenhauer, che tanto influenzò Wagner negli anni di stesura del Parsifal soprattutto per la parte “orientale” che riguarda i riti di inziazione ed il famoso quanto inconoscibile velo di Maya disteso sulla realtà: “Qualsiasi amore che non sia prima di tutto compassione è egoismo”. Mitleid qui è la compassione, ecco subito il testo dal dramma musicale: "Durch Mitleid wissend" ovvero "consapevole attraverso la compassione".

La “melodia infinita” di Wagner trasforma l’intero spettacolo nella trascendente visione iniziale, sorprendendo per l’intrecciarsi sinuoso e continuo a formare un percorso motivico tra personaggi e topoi, arricchendosi di atto in atto.

Dopo aver osservato il primo atto del Parsifal, immerso in una completa atmosfera oscura e ‘classicheggiante’, il secondo si presenta in maniera completamente diversa. I primi personaggi ad apparire in scena sono Klingsor (interpretato dall’eccellente basso Mark S. Doss) e Kundry vestiti entrambi di nero, in opposizione al bianco di Parsifal e dei monaci, come rappresentazione del male e della corruzione.

Il loro scambio di battute è ambientato nel proscenio con un fondale che rimanda esclusivamente all’immagine ‘faustiana’ del Graal, ovvero l’immagine dell’universo intesa come sinonimo di conoscenza assoluta. In tal senso, infatti, il malvagio del dramma è un dominatore assoluto presentato in scena, secondo l’idea del regista Tiezzi, attraverso la maschera di coccodrillo - che ha anche Kundry, doppia ed opposta a lui stesso sulla scena -, archetipo divorante con giganti fauci dentate. Come ricorda Durand: “fauci armate di denti aguzzi, pronte a stritolare e a mordere (…) la seconda epifania dell’animalità” (op. cit. p.76). L’incantesimo di Klingsor è questo morso fatale: viene fatto alla strega Kundry, che diventata schiava del mago, soggiace al suo volere di fermare Parsifal.

Nella scena seguente, ambientata nel giardino della reggia di Klingsor, su modello di Villa Rufolo a Ravello, la scenografia assume un leggero tocco di colore: il regista utilizza non molti riferimenti tra cui, sul fondo, un pannello illuminato in base alle esigenze drammaturgiche dell’opera. Due sono i colori predominanti: l’azzurro che indica tanto l’equilibrio quanto la passività in merito agli eventi; il secondo è il viola che, per antonomasia è il colore della magia e della metamorfosi, si riferisce ai costumi delle fanciulle fiore, le mogli dei soldati uccisi da Parisfal, che hanno cercato di proteggere i confini del giardino. Esse, in quanto mosse dal solo desiderio e impulso sessuale, sono creature prive di caratterizzazione (la melodia stessa che definisce il coro femminile sembra essere sempre la stessa) che cercheranno di sedurre e distrarre il “puro folle”.

Quest’ultimo in quanto ancora privo d’identità, non farà altro che acconsentire alla richiesta di “giocare con loro”. Ad un certo momento, però, compare Kundry (in abito azzurro): il suo arrivo viene definito dalla scenografia con l’apparizione di vari sfondi rappresentanti i cinque elementi. La strega, infatti, donerà coscienza al personaggio dandogli un nome : Parsifal/Fal Parsi - puro folle, ma soprattutto incarnandone il desiderio, attraverso il ricordo della madre, per poi baciarlo.

Tale evento fa assumere al protagonista coscienza di sè stesso: egli diventa soggetto. Soltanto ora Parsifal può provare compassione per il dolore di Amfortas e tramutarlo in amore cristiano: un atto che viene tradotto come volontà di redenzione per il prossimo. In tal senso egli vuole salvare Kundry dalla sua schiavitù negandole il piacere sessuale (la rinuncia ai sensi per la felicità o la salvezza: un concetto tanto buddista quanto della filosofia di Schopenhauer). La strega, quindi, si dispera poiché le viene negata la possibilità di redimersi dai suoi peccati (l’aver sedotto Amfortas e il cedere ai sortilegi di Klingsor), ma Parsifal la consola rispondendole: “Il conforto che estingue la tua sofferenza, non l’offre la fonte da cui fluisce; mai più ti sarà data la salvezza, se prima quella fonte in te non s’esaurisca”. Da questa rinuncia scaturisce la rabbia di Kundry e l’intervento di Klingsor che decide di attaccare Parisifal scagliandogli contro la Sacra Lancia che trafisse il Redentore e Amfortas. Il protagonista, ormai non più “puro folle”, la fermerà e impugnandola distrugge il regno del malvagio mago.

Si permetta, prima di passare al terzo atto, un piccolo appunto per questa scena: lo scenografo Giulio Paolini ha affermato che deve essere la musica a dare vita alla scena e non il contrario; è una giustificazione più che valida se si parla di sovrainterpretazione del dramma. In questo caso ci si trova di fronte ad un'interpretazione del libretto in cui la componente religiosa del capolavoro wagneriano deve risultare fondamentale. In tal senso il crollo del palazzo di Klingsor dovrebbe accadere poiché Parsifal traccia il segno della croce con la Lancia: tralasciare questo particolare ci è sembrato forse eccessivo. Tale mancanza, però, viene ampiamente ricompensata dalla coerenza dello scenografo che rimane invariata a livello d’immagini e riferimenti tra un atto e l’altro: quando Parsifal è divenuto padrone della Sacra Lancia e perciò Redentore, ritorna l’immagine dell’universo attraverso una stella che esplode; ciò indica il potere del protagonista di controllare lo spazio e il tempo, esattamente come una divinità.

Il terzo atto altro non è che il risultante delle idee scenografiche e di regia avute nella prima e seconda parte del dramma. I personaggi, infatti, si muovono (nella scena II) di nuovo all’interno del museo che ha come sfondo un’immagine prospettica, ma soprattutto Parsifal, oltre all’armatura nera da cavaliere con cui apparirà in scena all’inizio dell’atto, indosserà di nuovo il vestito bianco, stavolta inteso non più come sinonimo di purezza, ma di redenzione.

Il terzo ed ultimo atto si apre su un paesaggio meteoritico e desolato che si svolge durante il Venerdì Santo. Gurnemanz, ormai invecchiato (vestito di nero; presagio di sventura), sente qualcuno gemere: è la povera Kundry che, priva di forze (con lo stesso abito azzurro del secondo atto, ma con i capelli bianchi), si è trascinata nel territorio del Graal. All’improvviso giunge un cavaliere in armatura che s’inginocchia di fronte alla sua lancia ed inizia a pregare: l’anziano riconosce in lui il giovane Parsifal al quale racconta il degrado dell’ordine del Graal negli anni in cui egli è stato via: sarà possibile ristabilire l’armonia soltanto grazie all’arrivo di un Redentore, il “puro folle”, che guarirà le sofferenze di Amfortas con la Sacra Lancia; Gurnemanz, riconoscendo l’arma che Parsifal porta con sé, inizia il rituale evangelico per battezzarlo. Mentre l’anziano saggio bagna la testa del protagonista, Kundry, come la Maddalena, gli lava i piedi asciugandoli con i suoi capelli; a questo punto Parsifal la redime baciandola sulla fronte per poi dirigersi verso il monastero.

Ritorna, nel cambio di scena, la scenografia ‘classicheggiante’ del primo atto in cui la perfezione del disegno prospettico, sul fondale, viene interrotta dalla mancanza di alcune colonne che dovrebbero delimitare lo spazio sacro entro cui Amfortas deve scoprire il Graal. La musica diviene più grave, come una celebrazione funerea: i monaci e il cavaliere, infatti, sono vestiti di nero. Viene portato il cadavere di Titurel, antico cavaliere dell’Ordine e padre di Amfortas, sul quale egli prega in lacrime che il suo dolore svanisca: chiede ai monaci di ucciderlo, ma loro insistono che il rituale deve essere compiuto. Giunge, sul leitmotiv della Lancia, Parsifal che tocca l’uomo sofferente con la stessa arma con cui è stato ferito e lo guarisce: "La lancia che ferisce è lancia che guarisce". A questo punto i monaci si spogliano dei loro abiti funerei e rivelano dei costumi orientali (buddisti) per indicare che un nuovo ordine sta per essere costruito: un nuovo regno di amore e redenzione: quello di Parsifal che scopre il Graal mentre il coro declama “Redenzione al Redentore”.

Quest’ultima scena è stato possibile interpretarla anche scenograficamente: le colonne mancanti vengono reinserite al momento della rivelazione del Graal per indicare, appunto, che il monastero verrà ricostruito in nome del Redentore. Il regista Tiezzi, nel terzo atto, ha tralasciato il particolare della colomba finale che vola come anche sulle tuniche dei cavalieri del Graal, facendo svenire Kundry ai piedi di Parsifal. Ha voluto piuttosto dare rilevanza all’atto finale di Parsifal che, pregando, alza sul cielo la Lancia Sacra, guardando verso l’alto, mentre il sipario si chiude. Dal cielo proviene il nuovo ordine ristabilito dal Redentore.

Pubblicato in: 
GN38 Anno III 7 febbraio 2011
Scheda
Titolo completo: 

Parsifal
Teatro Regio di Torino

Mercoledì 26 Gennaio 2011 - Domenica 6 Febbraio 2011 - serata dek 29 gennaio

Dramma sacro in tre atti
Libretto di Richard Wagner
dal romanzo Parzival di Wolfram von Eschenbach

Musica di Richard Wagner
 
Personaggi    
Parsifal tenore Christopher Ventris/ Frank van Aken (27, 29)/ Endrik Wottrich (5)
Kundry soprano Christine Goerke/ Heidi Brunner (27, 29,5)
Amfortas, sovrano del regno del Graal baritono Jochen Schmeckenbecher/ Kay Stiefermann (27, 29,5)
Gurnemanz, il più anziano tra i cavalieri di Monsalvat basso Kwangchul Youn/ Kurt Rydl (27, 29,5)
Klingsor, mago, nemico del Santo Graal basso Mark S. Doss
Titurel, antico re, padre di Amfortas basso Kurt Rydl/ Arutjun Kotchinian (27, 29,5)
Primo cavaliere tenore Mathias Schulz
Secondo cavaliere basso John Paul Huckle
Primo Scudiero soprano Erika Grimaldi
Secondo scudiero contralto Anastasia Boldyreva
Terzo Scudiero tenore Vicente Ombuena
Quarto Scudiero tenore Jud Perry
Prima fanciulla fiore soprano Talia Or
Seconda fanciulla fiore soprano Erika Grimaldi
Terza fanciulla fiore mezzosoprano Anastasia Boldyreva
Quarta fanciulla fiore soprano     Arianna Ballotta
Quinta fanciulla fiore mezzosoprano     Rebecca Jo Loeb
Sesta fanciulla fiore mezzosoprano     Stefanie Irányi
Voce dall'alto contralto Daniela Valdenassi/ Roberta Garelli (27,30,3,6)
       
Direttore d'orchestra  Bertrand de Billy
Regia  Federico Tiezzi
Scene Giulio Paolini
Costumi Giovanna Buzzi
Luci Luigi Saccomandi
Assistente del direttore d'orchestra     Eun Sun Kim
Regista assistente e collaboratore all'ideazione scenografica Francesco Torrigiani
Assistente alle scene     Mariano Boggia
Assistente ai costumi     Lisa Rufini
Maestro del coro e del coro di voci bianche Claudio Fenoglio

Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio "G.Verdi"

Allestimento Teatro San Carlo di Napoli (2007)

Approfondimenti

Nicola Montenz Parsifal e l'incantatore. Ludwig e Richard Wagner

Edizioni Archinto pp. 304 € 16

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