La realtà secondo Mario De Caro. Che cosa esiste veramente?

Articolo di: 
Teo Orlando
De Caro

In un volumetto che una volta si sarebbe detto "aureo" (Realtà, Torino, Bollati Boringhieri, 2020), per la chiarezza del dettato e la lucidità dell'argomentazione, Mario De Caro affronta il più filosofico e insieme il più comune dei problemi, quello della realtà, sulla base del presupposto per cui "nessuno è riuscito a dimostrare in maniera convincente che possiamo rinunciare all'idea di una realtà indipendente rispetto a noi, cioè all'idea di una realtà internamente strutturata già prima che la mente la concettualizzi" (p. 14).

De Caro ha collaborato con alcuni esponenti del cosiddetto new realism (come Maurizio Ferraris o Markus Gabriel), ma questo libro non si propone come una sorta di manifesto di quella corrente filosofica: è piuttosto una difesa di una prospettiva naturalistica sulla realtà. Nel primo capitolo, l'autore, muovendo dal generale scetticismo che caratterizzava gran parte dei filosofi degli ultimi decenni del Novecento intorno all'idea di realtà, osserva come, a parte due importanti eccezioni come Karl R. Popper e John Searle, opzioni autenticamente realiste si riscontrassero quasi solo in Australia, tant'è vero che nell'oceano dell'antirealismo si trovavano a nuotare in senso contrario, con molta fatica, quelli che si potevano definire i "marsupiali della filosofia". L'antirealismo trovava i suoi campioni sia tra i filosofi eminenti della tradizione anglosassone (da Davidson a Rorty, da Feyerabend a van Fraassen, da Kuhn a Hacking), sia tra i cosiddetti filosofi continentali (da Foucault a Derrida, da Gadamer a Lacan, da Lyotard a Vattimo).

Peraltro, nessuno di costoro arrivava a negare esplicitamente l'esistenza di una realtà extramentale, ma sostenevano semmai l'impossibilità di intenderla come qualcosa di già dato, come se fosse preconfezionato indipendentemente dalla strutturazione delle categorie della mente e del linguaggio. Senza di esse, la realtà sarebbe destrutturata e amorfa. Questo punto di vista aveva poi comportato la riabilitazione di varie forme tradizionali di antirealismo, dal nominalismo al fenomenismo, dal classico idealismo all'empirismo radicale, per finire con forme più o meno pronunciate di scetticismo, spesso declinate con vestiti camuffati (postmodernismo, pensiero debole o decostruzionismo).

Anche uno storico della scienza come Thomas Kuhn difendeva un relativismo alquanto radicale, per cui noi viviamo in un mondo determinato dai paradigmi delle scienze dominanti: il nostro mondo, o meglio quello galileiano, differisce da quello aristotelico perché un corpo oscillante sopra di noi è un pendolo, mentre per gli antichi è solo un corpo che tende verso il suo locus naturalis. E anche Hilary Putnam, insieme agli apparentemente distanti Gadamer e Davidson, arrivò a sostenere l'impossibilità di parlare di un mondo senza la partecipazione della mente o di dati di realtà presupposti alla mente e non interpretati. Putnam, nella fase in cui difendeva il cosiddetto realismo interno, sostenne che sono la mente e il mondo, congiuntamente, a generare la mente e il mondo, in modo, per così dire, "transitivo", come avrebbe detto Spinoza; non può esservi, dunque, un mondo «bell’e pronto», senza la partecipazione delle nostre funzioni intuitive e cognitive.

Con accenti non dissimili, il filosofo americano Richard Rorty, in un libro epocale intitolato The Philosophy and the Mirror of Nature (1979), sosteneva che la realtà esterna è sempre plasmata grazie alla nostra intelaiatura concettuale. Stante l'impossibilità di porci al di fuori del nostro apparato concettuale per capire che cosa la realtà sia veramente prima di essere concettualizzata, non possiamo formarci nessuna rappresentazione non contraddittoria di una realtà preesistente alla nostra mente. Da Rorty, bridge-builder tra filosofia analitica e filosofia continentale, il passaggio al postmodernismo, al decostruzionismo e al pensiero debole è breve: queste concezioni si caratterizzano proprio per l'esplicita negazione dell’idea di una realtà oggettiva indipendente, in nome della tesi che non ha senso parlare di una realtà prelinguistica.

Tuttavia, osserva De Caro, come nell'ultimo atto del Don Giovanni di Mozart appare il fantasma del Commendatore a richiamarci alla memoria quelle verità che non si possono cancellare, così negli ultimi anni la realtà è tornata a occupare saldamente e decisamente la scena filosofica sicché il numero dei filosofi che si definiscono realisti è andato aumentando, sia all’interno della filosofia analitica, sia di quella continentale. I marsupiali, lungi dall'essere una specie in estinzione, sono tornati, con il loro realismo, a occupare i continenti filosofici.

Ma De Caro non intende approntare un'indagine sulle nuove filosofie realiste, quanto piuttosto dare una risposta convincente alle domande che sorgono una volta che si sia assunta la correttezza del punto vista realista. Eccone una breve rassegna: 1) come parametro per formulare giudizi sulla realtà esterna dobbiamo tributare maggiore affidamento ai sensi oppure a ciò che la scienza ci dice del mondo? 2) Se la risposta fosse quella di assegnare maggior valore alla scienza, come ce la caveremmo qualora le varie discipline scientifiche parlino di entità che non si possono percepire né con i sensi né con gli strumenti che amplificano i sensi (come i telescopi o i microscopi)? 3) I colori, i suoni, gli odori – ossia quelle che la tradizione da Galileo a Locke chiamava qualità secondarie e che, sulla base della testimonianza dei sensi, ci sembrano collocate nel mondo esterno – esistono veramente fuori di noi o sono proiezioni foggiate dalla nostra mente? 4) Oltre agli oggetti materiali, esistono anche entità non materiali come le "menti disincarnate" (disembodied minds), i numeri, gli atti mancati e gli universali? 5) Le entità non osservabili della fisica, come gli elettroni o i buchi neri, esistono oggettivamente o sono solo costrutti teorici che hanno un valore "economico", come a suo tempo sosteneva Ernst Mach? 6) Nelle scienze non dure, le entità collettive, come le multinazionali, esistono come entità indipendenti e  responsabili del loro agire, oppure sono entità fittizie che, proprio in quanto fittizie, non possono essere considerate responsabili di ciò che sembra a tutti che accada per il loro intervento? 7) Quale statuto di realtà hanno le malattie psichiche? Sono costrutti culturali o patologie oggettivamente collocate nel mondo biologico? 8) I giudizi morali e quelli estetici sono in grado di individuare aspetti oggettivi della realtà o hanno uno status meramente soggettivo? 9) Il tempo esiste come lo pensiamo oppure la sua natura è del tutto illusoria, sulla scorta di ciò che sostengono perfino alcuni fisici? 10) Nel mondo esistono veramente fenomeni causali o la causazione è una mera proiezione della nostra mente?

Per De Caro, tutte queste domande possono ricevere una risposta plausibile solo una volta che si sia determinata quale sia la migliore forma oggi disponibile di realismo filosofico. De Caro muove peraltro dall'ipotesi per cui nessun filosofo serio è stato mai del tutto realista o del tutto antirealista: neppure l'austriaco Alexius Meinong, forse il più radicale tra i realisti, attribuiva al quadrato rotondo un'esistenza reale, ma semmai una sussistenza ipotetica. O il vescovo George Berkeley, campione dell’antirealismo nella forma dell'idealismo soggettivo e difensore dell'immaterialismo: diventava un convinto realista quando discuteva della mente divina. Come già sosteneva Benedetto Croce, nella sua prosa un po' old fashioned: "neppure il Berkeley, negando la materia, negava la realtà, che era per lui la volontà e la realtà di Dio; e per lo Hegel l'Idea non era il mero conoscere, ma l'unità del conoscere e del volere, capace di produrre il sole, la terra e le altre stelle, ed eseguire il programma di tutte le sette giornate della creazione; e, anche per i più vacui degli odierni idealisti, l'atto che chiamano del pensiero è più che l'atto del conoscere, onde essi cascano, se mai, nel misticicmo o nell'irrazionalismo o nel fenomenismo, ma non già nel «solipsismo», che è uno spauracchio di cosa che nessuno ha mai sul serio pensato a proporre e sostenere" (La Critica, 1937, 35, p. 153). Pertanto, l'autore sostiene che tutti i tentativi di soluzione del problema del realismo sono questione di grado: per lui si tratta di valutare quali dosi di realismo vadano adottate caso per caso, specificando quali sono le entità reali rispetto ai vari ambiti.

Peraltro, esistono almeno due forme fondamentali di realismo filosofico:
1) Il realismo ontologico, per cui determinati tipi di cose sono reali, sia che si tratti di entità concrete (il computer con cui scrivo, il tavolo, la stella doppia Alpha Centauri o Donald Trump), sia che si tratti di entità astratte (le menti disincarnate, i numeri, gli alieni e il concerto per violoncello di Schumann che sto ascoltando) oppure di proprietà (l'essere rosso, la bontà e il libero arbitrio), eventi o processi (il Big Bang, la transustanziazione e il Medioevo). Queste teorie possono arrivare non solo ad affermare la realtà del mondo esterno nel suo complesso ma anche a determinare in che senso è reale il tempo, compreso il futuro, o lo spazio, come contenitore di entità, secondo Isaac Newton. Sorgono poi due domande parallele: ci si può chiedere se una determinata cosa esista veramente oppure, ammettendone l'esistenza, se essa esista indipendentemente dalle menti che la pensano. A proposito degli atomi ci si pone in genere la prima domanda, e a proposito dei colori ci si pone, invece, la seconda domanda.
2. Il realismo epistemologico. Secondo i fautori di questa concezione, esistono fatti che vanno ben al di là di ogni nostra possibilità di verificarli. Immaginiamo che sia vero, per esempio, che nell’universo non esistono forme di vita fuori del Sistema solare. Questo sembra chiaramente un fatto non suscettibile di un accertamento definitivo, perché implicherebbe la possibilità di perlustrare l’intero universo, cosa fuori della portata delle odierne tecnologie. Un antirealista potrebbe obiettare che si tratta di un fatto accertabile in «condizioni epistemiche ideali», cioè senza vincoli spazio-temporali posti al soggetto conoscente. A sua volta, allora, il realista epistemologico potrebbe replicare che accettare una tale possibilità vorrebbe dire fare appello a un punto di vista "divino", ipotesi oggi poco considerata perfino dai credenti.

De Caro si occupa specialmente della prima forma di realismo, quello ontologico, supponendo, peraltro, che in tutte le teorie filosofiche serie si combinino elementi di realismo e di antirealismo. Per lui le due forme fondamentali del realismo ontologico sono (a) il realismo ordinario, che attribuisce realtà esclusivamente alle entità di cui possiamo avere esperienza,  che essa sia diretta (attraverso l’introspezione o i sensi) o indiretta (per mezzo degli strumenti che ampliano la portata dei sensi, come i microscopi e i telescopi), e (b) il realismo scientifico, ossia la concezione secondo la quale il mondo contiene soltanto le entità e gli eventi (sia quelli osservabili, sia quelli non suscettibili di osservazione) che le scienze naturali sono in grado di descrivere e di spiegare. Secondo una versione di questa prospettiva che già ai tempi del Wiener Kreis veniva chiamata fisicalismo, la fisica assurge a scienza fondamentale, perché tutte le altre scienze sono riducibili ad essa: in questa prospettiva, pertanto, la fisica delimita in linea di principio l’intera nostra conoscenza e la nostra ontologia.

Queste versioni del realismo possono poi combinarsi con una terza versione, più sofisticata dal punto di vista filosofico benché poco familiare a chi non si occupa di filosofia: si tratta del realismo rispetto alle entità astratte (ossia le entità che per definizione non sono situabili da un punto di vista spazio-temporale, come gli universali, i numeri, gli insiemi, le specie e i significati): il realismo rispetto a queste classi di entità viene spesso etichettato come «platonismo ontologico», perché apparentabile, per molti versi alla cosiddetta "teoria delle idee" di Platone. Secondo tale forma di realismo, le entità astratte esistono indipendentemente dalle esemplificazioni concrete che occorrono nel continuum spazio-temporale. Per esempio, la specie Canis lupus esiste come entità astratta al di là delle sue singole esemplificazioni concrete, come il pastore tedesco del mio vicino di casa o il cane-attore che interpretava il commissario Rex. Analogamente, secondo i platonisti ontologici (per esempio Gottlob Frege), il significato dell’enunciato «La Groenlandia è un’isola» esiste indipendentemente dalle manifestazioni concrete di quell’enunciato (e degli enunciati analoghi nelle lingue diverse dall’italiano).

De Caro si cimenta poi con ampi excursus storici che ci portano innanzitutto all'epoca di Galileo: il grande scienziato viene visto come un difensore delle tesi platoniche, ossia dell'idea che a determinare l’ambito ontologico dovesse essere la matematica, come sostenevano i platonici, e non la percezione, come invece asserivano gli aristotelici: per lui il primato ontologico ed epistemologico spetta alla fisica. Secondo il platonismo fisico-matematico esistono soltanto le proprietà fisiche, la cui natura è di essere intrinsecamente matematiche e, più precisamente, geometriche. Si sofferma poi su Husserl, secondo il quale le indagini fenomenologiche provano che l’unico mondo reale è il «mondo della vita» (Lebenswelt): si tratta del mondo dell’esperienza umana, in cui i valori e le proprietà secondarie sono reali. Esso è il  «dimenticato fondamento di senso della scienza naturale». I concetti scientifici diventano mere idealizzazioni con fini pratici, come la misurazione e la previsione, senza riferirsi a entità reali. In quest’ottica, la scienza va interpretata strumentalmente, ossia in termini ontologici e antirealistici.

Dopo un confronto con autorevoli filosofi analitici contemporanei come van Fraassen (per il quale usa la felice etichetta di "empirismo costruttivo"), Quine, Sellars, McGinn e Putnam, De Caro approda alla fine a una forma di  «naturalismo liberalizzato», che ammette l’esistenza (e la necessità) di una pluralità di chiavi di accesso a una realtà che è irriducibilmente complessa e variegata. E per dimostrare la praticabilità di tale via, si sofferma su un tema a lui molto caro, ossia quello del libero arbitrio (che Hume definiva  "la più controversa questione che filosofia e scienza debbano affrontare"). Si sofferma innanzitutto su alcune idee errate, ma molto comuni (come gli idola di baconiana memoria), che si ritrovano frequentemente nelle discussioni sul concetto di libero arbitrio o di libertà del volere e che rischiano di condurre ogni discussione in un impasse. Analizza poi le due principali sfide attuali al concetto di libero arbitrio, quella deterministica di carattere neuroscientifico e quella epifenomenista.

Secondo la prima, i nostri comportamenti sono interamente determinati da fattori che sfuggono al nostro controllo sicché il libero arbitrio risulterebbe impossibile. Tesi per corroborare la quale una volta si faceva riferimento alla fisica (che fosse la meccanica newtoniana o la teoria della relatività) o a scienze sociali come la sociologia e l’antropologia (nelle loro versioni deterministiche e incentrate sulla nozione di contesto sociale e culturale). Oggi si preferisce ricorrere alla genetica e alle neuroscienze, nelle loro declinazioni più deterministiche. In base alla seconda, si sottolinea la discrasia fra i motivi (esplicativi) che il soggetto adduce per spiegare le proprie azioni e i fattori motivazionali inconsapevoli (ossia le cause reali) che determinerebbero realmente le azioni stesse. In questo caso, vi sarebbero  condizioni in cui, al di là delle apparenze, gli stati coscienti non sarebbero causalmente rilevanti nella generazione delle azioni: la conseguenza è che, almeno in alcuni casi, la mente cosciente non disporrebbe di poteri causali, ovvero sarebbe epifenomenica. Tesi che metterebbe fuori gioco anche il classico compatibilismo, ossia la classica concezione sviluppata da Locke, Hume e Leibniz  secondo cui il determinismo è, almeno in parte, conciliabile con il libero arbitrio.

Un altro punto interessante è la sfida lanciata dal cosiddetto misterianismo (p. 65). Infatti, abbiamo, da una parte, filosofi che sostengono che le caratteristiche dell'immagine ordinaria della natura hanno una precisa collocazione nel mondo come è descritto dalle scienze naturali e vogliono che queste caratteristiche siano ridotte a quelle scientificamente accettabili. Altri, invece, sostengono che queste caratteristiche sono mere illusioni e, di conseguenza, dovrebbero essere eliminate dalla nostra ontologia. Le due opzioni ontologiche, cioè il riduzionismo e l'eliminativismo, sono considerate da altri come qualcosa di assimilabile a Scilla e Cariddi, in termini di non convenienza.

Di conseguenza, essi optano per il 'misterianismo', la visione secondo la quale non possiamo rinunciare ai tratti ingenui e non scientifici dell'immagine ordinaria anche se non siamo in grado di capire i modi (che certamente esistono) in cui potrebbero essere ridotti a quelli scientifici. De Caro pensa che il misterianismo sia solo un modo per spiegare i problemi, senza fornire alcuna soluzione: in ultima analisi, riduzionismo, eliminativismo e misterianismo falliscono di per sé, per cui l'assunto a cui attenersi è quello per cui  l'immagine scientifica e l'immagine ordinaria del mondo sono essenziali e reciprocamente irriducibili ma non incompatibili tra loro, come solo una genuina visione filosofica può evidenziare. Per questo è assurdo dare credito a qualche scienziato che condanna a morte la filosofia: ma in realtà questi scienziati perché stanno semplicemente filosofando per conto loro senza avere gli strumenti adeguati per farlo. E questo è un errore simmetrico a quello dei filosofi - ancora abbastanza numerosi, purtroppo - che pretendono di discutere di questioni scientifiche senza avere la minima idea di ciò di cui stanno parlando (p. 78).

A questo punto, secondo De Caro, è necessario che filosofia e scienza procedano congiuntamente, ognuna secondo le sue competenze e le sue prerogative, per trovare uno spazio in cui sia legittimo parlare di libero arbitrio: per lui,  questa è esattamente la prospettiva del naturalismo liberalizzato che consente di considerare  gli esseri umani, allo stesso tempo, come agenti liberi e come enti naturali. Nel primo senso, apparteniamo alla sfera normativa dello spazio delle ragioni; nel secondo senso, alla sfera della legalità naturale: solo una metafisica scientistica poco giustificata può indurre a pensare che esista una spiegazione più corretta e fondamentale di altre. Ci sono casi in cui dobbiamo ricorrere alle spiegazioni proprie delle scienze naturali; poi via via passeremo al livello proprio delle scienze umane e sociali; e infine arriveremo al livello delle spiegazioni normative. Come ha scritto Hilary Putnam ci sono «as many kinds of cause as there are senses of “because”» (tanti tipi di cause quanti sono i sensi di «perché»).
 

Pubblicato in: 
GN5 Anno XIII 7 dicembre 2020
Scheda
Autore: 
Mario De Caro
Titolo completo: 

Realtà. Torino, Bollati Boringhieri, 2020. Pp. 126.
Euro 13,00.