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Comunismo e follia al Valle. La rivoluzione è nella camicia di forza
Lo storico francese Françoise Furet, autore di un celeberrimo libro intitolato Il Passato Dell’illusione, in un suo saggio definì tragico il ventesimo secolo, il secolo dei totalitarismi e della violenza politica. Questo giudizio del grande studioso è riemerso e riaffiorato nella mia mente, dopo aver assistito alla rappresentazione dello spettacolo intitolato Come spiegare la storia del comunismo ai malati di mente, in scena al Teatro Valle di Roma dal 27 aprile al 9 maggio 2010 con la regia di Giampiero Borgia.
L’autore di questa pièce, intrisa di una comicità dolente e tragica, è lo scrittore e drammaturgo romeno Matei Visniec. All’inizio della rappresentazione lo spettatore rimane colpito dalla scenografia mobile che riproduce l’ambiente di un manicomio, con le sbarre che delimitano il luogo di cura rispetto al mondo esterno, ed i malati che vagano nello spazio soffocante e limitato in preda ai deliri mentali da cui sono soggiogati.
Il medico Gregori, responsabile e direttore dell’ospedale psichiatrico, incontra lo scrittore e poeta Yuri Petrovski, con il quale ha una lunga conversazione ed un dialogo sulle terapie da sperimentare sui suoi pazienti, per liberarli dai demoni da cui sono tormentati. Per Gregori la letteratura e l’arte sono fondamentali per spiegare ai malati il valore del socialismo e aiutarli a comprendere quanto è importante modificare in modo profondo e radicale la natura umana, perché possa sorgere l’uomo nuovo, che sia espressione della nuova società plasmata in base agli ideali derivanti dal marxismo-leninismo.
Allo scrittore Yuri Petrovski il medico affida il compito di educare i suoi malati attraverso i suoi racconti letterari. Per questa ragione lo invita a vivere e a lavorare e a comporre i suoi scritti dentro le mura del manicomio. Nella prima parte della pièce lo scrittore tiene una serie di lezioni ai malati, ai quali spiega e racconta la grande impresa di Stalin che, pur di dare vita alla società socialista, ha dovuto applicare metodi politici improntati al rigore verso i cittadini riluttanti a liberarsi della loro mentalità borghese e controrivoluzionaria. Per Yuri, l’elemento che definisce la natura del socialismo è dato dalla necessità di rimanere uniti da un vincolo collettivo, per impedire che altri uomini possano trovarsi da soli e vittime della ingiustizia.
I racconti dello scrittore ai malati sono pervasi da toni ed accenti grotteschi e paradossali, con i quali l’autore della pièce è riuscito ad evocare ed a raffigurare con immagini poetiche gli anni cupi dello stalinismo, il periodo terribile dei processi politici verso quanti erano ingiustamente considerati i nemici della patria e della rivoluzione, la collettivizzazione della terre e la persecuzione e l’uccisione dei KulaKi, i quali si rifiutarono di sottostare alle spoliazioni dei beni perpetrati nei loro riguardi dal regime comunista.
Katia, l’infermiera cha lavora nell’ospedale psichiatrico, ha un dialogo bellissimo con Yuri, al quale chiede, con l’animo sopraffatto dall’emozione, di descriverle lo sguardo di Stalin, che lo scrittore ha incontrato quando gli è stato assegnato un premio letterario. Questa donna, che vive la sua vita coltivando una devozione sconfinata verso il dittatore georgiano, con la sua ostinata ricerca di contatti e rapporti (non solo) sentimentali con uomini che hanno conosciuto personalmente Stalin, esemplifica in modo splendido e spiega cosa abbia significato il culto della personalità nei regimi totalitari per milioni di uomini.
In questo spettacolo l’idea fondamentale, che conferisce un grande spessore letterario ed estetico all’intera rappresentazione, è basata sul tentativo di descrivere e raccontare la vicenda grandiosamente tragica del totalitarismo comunista attraverso una storia ambientata in un microcosmo, nel quale si riflettono poeticamente, come lievi riverberi, i grandi eventi del comunismo sovietico. Yuri, grazie ai suoi racconti letterari ed alle sue lezioni, riesce ad instaurare un legame di amicizia con i pazienti del manicomio, al cui interno sono divisi in diversi reparti, in base alla patologia da cui sono affetti.
Una sera, mentre riposa nella sua stanza, lo scrittore riceve inaspettata la visita del vice direttore dell’ospedale psichiatrico. Quest’uomo, dall’atteggiamento mellifluo e ambiguo, gli offre da bere, dopo averlo svegliato nel cuore della notte. Il vicedirettore gli confessa di essere l’uomo che deve riferire alle autorità del partito quanto accade dentro l’ospedale, e di considerare reazionaria, controrivoluzionaria e sovversiva la sua intera produzione letteraria. Tuttavia, ammette di avere capito che l’ispirazione borghese e reazionaria, che attraversa l’intera produzione letteraria dello scrittore, è necessaria per penetrare nella mente malata dei pazienti e aiutarli a liberarsi dai loro tormenti interiori. Questo meraviglioso dialogo, più e meglio di altre parti dello spettacolo, mette a nudo e coglie in maniera straordinaria il meccanismo della delazione, a causa del quale molti intellettuali negli anni dello stalinismo furono perseguitati e dovettero vivere nell’angoscia perenne di finire sotto processo.
Nella parte finale dello spettacolo, avviene un mutamento di prospettiva nella rappresentazione della vicenda, che sorprende e colpisce lo spettatore per la sua inaspettata imprevedibilità. Lo scrittore, dopo essere stato svegliato nel cuore della notte, viene invitato da un paziente del manicomio, Ivanov questo è il suo nome, a visitare una zona libera, che lui ha istituito e creato dentro la casa di cura. Ivanov gli spiega che dentro lo spazio libero i pazienti hanno celebrato dei processi immaginari contro gli scrittori che hanno ricevuto il premio Stalin, che spesso giocano fingendo di trovarsi in un casinò, che sono abituati a ripensare alle vicende storiche di cui Stalin è stato protagonista, come il patto Molotov-Ribbentrop tra Germania e Unione Sovietica, con cui è stata tradita e snaturata la purezza originaria dell’ideale socialista.
Particolarmente commovente è la parte in cui, nella zona libera del manicomio un paziente ricorda il suo incontro con Stalin, al quale aveva descritto il modo con il quale i Kulaki, renitenti ad accettare le leggi che governavano i Kochoz, venivano uccisi mediante la pratica crudele della crocefissione. Ivanov, in un monologo in cui risuonano accenti di verità, dichiara allo scrittore che la rivoluzione può continuare soltanto dentro lo spazio angusto del manicomio, poiché fuori di esso il sogno di creare l’uomo nuovo si è tragicamente infranto e si è oramai dissolto nel vento.
Nella parte finale dello spettacolo la notizia della morte di Stalin getta nella disperazione sia i malati di mente sia lo scrittore Yuri insieme con i medici e l’infermiera Katia. La conclusione della pièce è apparsa estremamente lirica, mentre Stalin fa la sua entrata in scena, vacillante e privo di forza, confessando di essere stanco e finito come uomo, fuori dalla finestra del manicomio nevica incessantemente e Yuri - con indosso una camicia di forza con papillons - si allontana dal luogo dove avrebbe dovuto spiegare la natura del socialismo ai malati di mente.
Nello spettacolo si sente cantare più volte Katiusha, celebre canzone russa diffusasi durante la seconda guerra mondiale (scritta nel 1938 da Matvei Blanter il testo è di Michail Isakovskij) l'unica canzone che tutti, indistintamente, cantano in russo. I temi e le vicende di questa storia, collocata in un microcosmo raffigurato nella pièce con grande forza immaginifica, attingendo ai registri espressivi della satira, hanno una somiglianza profonda con le storie raccontate in un grande libro da Vasilij Grossman il cui titolo è Vita e Destino, edizione Adelphi.