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Santa Cecilia. Harding, Bell, titaniche nostalgie
La serata del 19 aprile 2025 all’Auditorium Parco della Musica di Roma ha inaugurato con grandissimo respiro e lucidità di visione il nuovo ciclo mahleriano firmato da Daniel Harding alla guida dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Quello di Harding è un progetto ambizioso, che si annuncia progressivo e coerente in questa stagione e nelle prossime: l'idea è quella di affrontare l’intero corpus sinfonico di Gustav Mahler in ordine cronologico, compresa, sperabilmente, l'Ottava sinfonia, raramente eseguita a causa della necessità dell'organo a camme e di un pletorico organico corale. E non poteva che partire con Il Titano, la Prima Sinfonia, preceduta dal delicato intermezzo Blumine, originariamente pensato come secondo movimento della Sinfonia stessa, e poi espunto da Mahler in seguito a ripensamenti critici.
Nel cuore del programma, come una sorta di ponte espressivo tra le due pagine mahleriane, si è collocata l’interpretazione di Joshua Bell del Concerto per violino in la minore di Antonín Dvořák: un’opera di transizione tra la liricità slava e il linguaggio concertistico mitteleuropeo. Tra i tre pezzi si respirava in effetti una sorta di "aria di famiglia", al punto tale che dietro di essi si può dire aleggiasse il fantasma di Johannes Brahms. Dal classicismo brahmsiano i tre brani hanno mutuato molti elementi: dalla compostezza del linguaggio timbrico alla ricercatezza delle melodie, dalla fedeltà ai canoni tradizionali alla ricerca di moduli espressivi nuovi, ma non ancora sperimentali. Il concerto di Dvořák è stato affidato a un violinista che è oggi ben più che una “guest star”. Bell, in qualità di artista in residence a Santa Cecilia, si è rivelato anche in questa occasione strumentista-poeta, capace di fondere la brillantezza tecnica con un’emozione sempre contenuta, mai effusiva.
Ad aprire il concerto è stato un brano frutto di una scelta tanto insolita quanto illuminante: Blumine, ossia il movimento originariamente pensato da Mahler come Andante della Prima Sinfonia, riscoperto solo nel 1966 dal biografo di Mahler Donald Mitchell e riproposta al pubblico da Benjamin Britten, che la fece eseguire al festival di Aldenburgh l'anno successivo; da allora è ancora oggetto di dibattito tra esegeti e interpreti. Harding sceglie di presentarlo quasi a mo' di antipasto della sinfonia, come una sorta di epigrafe musicale, di preludio sospeso. Lo stesso titolo allude a questo ruolo di sommessa introduzione: è ricavato da una raccolta di scritti del poeta romantico Jean Paul (Richter), una delle passioni di Mahler, intitolata Herbst-Blumine (florilegio d'autunno).
Il brano si fonda su un’idea lirica che si presenta con disarmante "nostalgia anticipata": un canto malinconico della tromba solista, di impianto quasi schubertiano, che si libra su un tessuto armonico statico, rarefatto. Harding ne esalta il carattere notturno e intimista, evitando ogni tentazione sentimentale. Il risultato è di un’eleganza sorvegliata, capace di far cogliere in Blumine una chiave di accesso allo spleen affettivo che attraversa gran parte della poetica mahleriana.
Il Concerto per violino op. 53 di Dvořák, scritto per il grande violinista Joseph Joachim ma da lui inizialmente rifiutato, è un'opera di sintesi, che unisce la solidità della forma classica con le iridescenze melodiche della tradizione boema. La sua composta e raccolta bellezza non gli ha consentito però di occupare un posto di prima fila tra i grandi concerti per violino tardo-romantici, come quello di Schumann, di Čajkovskij e dello stesso Brahms. Anche perché il concerto più emblematico per strumento solista e orchestra di Dvořák è quello per violoncello e orchestra, n. 2 in si minore, op. 104. Joshua Bell, che da anni ha fatto proprio questo repertorio, ha dato vita a un’interpretazione di grande respiro, caratterizzata da un equilibrio perfetto tra cantabilità e virtuosismo.
Nel primo movimento (Allegro ma non troppo), Bell ha saputo coniugare l’impeto giovanile con una lettura sorvegliata, dove il fraseggio si fa narrativo, e ogni increspatura armonica trova un suo peso specifico. Particolarmente riuscita la sezione di sviluppo, dove il dialogo con l’orchestra – perfettamente controllata da Harding – è diventato un gioco di specchi emotivi, e non mero accompagnamento.
Nell'Adagio ma non troppo, che si innesta sul primo tempo senza soluzione di continuità, Bell ha trovato un terreno perfetto per dispiegare il suo celebre suono: caldo, rotondo, capace di piegarsi al sospiro come al grido represso. L’arco disegna frasi di una cantabilità squisitamente lirica, evocando atmosfere notturne e arcaiche, come se Dvořák stesso guardasse alla sua terra natìa con occhi colmi di nostalgia.
Il Finale (Allegro giocoso, ma non troppo) è invece un’esplosione di vitalità danzante, simile per certi versi al finale della Settima sinfonia di Beethoven, ma con ritmi slavi e le asimmetrie metriche che Dvořák padroneggia con arte suprema. Bell lo affronta con eleganza più che brillantezza, evitando l’effetto e cercando invece la struttura, il disegno interno, il dialogo con le voci dell’orchestra. È proprio in questa scelta – più riflessiva che virtuosistica – che emerge il suo essere un interprete maturo, in perfetta sintonia con Harding, la cui concertazione non cerca mai di sovrastare il solista, ma lo incornicia con cura simile a quella di un ensemble da camera. La standing ovation che segue il finale del concerto induce Bell a concedere un singolare bis: l'esecuzione di un notturno di Chopin affidato al virtuosismo dell'arpista e alle flessuose evoluzioni del suo violino.
Dopo l’intervallo, arriviamo al culmine del concerto: la Sinfonia n. 1 in re maggiore di Gustav Mahler, detta Il Titano, come l’omonimo romanzo di Jean Paul che ne ispirò inizialmente la concezione programmatica; si trattava di una sorta di Bildungsroman molto critico verso la cultura del romanticismo). Già in quest’opera si avverte la capacità di Mahler di rendere la spiritualità profonda dell’essere in un vestito sensibile, con precisione e inflessibilità, in modo tale che la sua scrittura già predelinea ogni possibile interpretazione.
L’opera fu composta tra il 1884 e il 1888, nel periodo in cui Mahler ricoprì la carica di secondo direttore all'Opera di Lipsia. La première ebbe luogo al Teatro dell’Opera di Budapest, di cui il compositore boemo era stato da poco nominato direttore, il 20 novembre del 1889: si trattava di una versione non ancora definitiva, che aveva addirittura come sottotitolo "Poema sinfonico in due parti”. Un relativo scarso successo lo indusse a revisionare la sinfonia, che venne riproposta ad Amburgo nel 1893 e a Berlino nel 1896, in una versione in cui venne eliminato il citato Andante “Blumine”. Harding, che affronta questa partitura con uno sguardo già pienamente sinfonico e non più giovanilistico, ne offre una lettura lucida, narrativa, teatrale, ma senza forzature retoriche.
Il primo movimento della Sinfonia (Langsam, schleppend – Im Anfang sehr gemächlich) comincia con una lunga nota che viene mantenuta dal lavoro degli archi, finché non cominciano a staccarsi vari incisi. Come ha scritto Theodor W. Adorno, “questa sonorità consunta discende dal cielo simile a un logoro sipario; non diversamente la luce grigio-chiara della nuvolaglia ferisce l’occhio sensibile”. Tutto il movimento appare una forma sonata modificata, in cui la lenta introduzione con un lungo motivo discendente richiama il celeberrimo primo movimento della Nona di Beethoven (con la sostanziale differenza del primato dei fiati sugli archi). L’incipit è reso con estrema attenzione alle gradazioni dinamiche: l’accordo tenue di archi, il rintocco lontano del re in pizzicato, i richiami naturalistici che emergono dai fiati: sono elementi grazie ai quali Harding pare volerci ricordare che Mahler comincia sempre “dal mondo”, mai dalla forma. Il movimento cresce come un organismo vivente, fino all’esplosione del tema principale. Il tema viene poi interrotto dai clarinetti, che irrompono quasi con un motivo di fanfara, assecondati dalle trombe in fondo all’orchestra che dal canto loro si mantengono in discreta lontananza. Segue poi la più tenue esposizione, in cui parte della melodia viene ripresa dal secondo dei Lieder eines fahrenden Gesellen, dal titolo “Ging heut’ Morgen übers Feld” ("Me ne andavo stamane sui prati"). La melodia viene prima accennata dai violoncelli e poi passa a tutta l’orchestra, finché segue uno sviluppo che riprende l’introduzione, per concludersi in modo quasi umoristico.
Il secondo movimento (Kräftig bewegt, doch nicht zu schnell), la danza contadina che già prefigura certe pagine di Bruckner, viene reso con energia controllata: è una sorta di minuetto modificato seguito da un Trio. Mahler sostituisce l’autentico minuetto con un Ländler, una forma di danza popolare in ¾ che ha anticipato il classico valzer viennese. Un tema principale si ripete in tutto motivo finché l’energia musicale culmina in un finale frenetico. In seguito nella melodia principale si delinea un accordo di la maggiore che trapassa nel Trio; nella conclusione ritorna il Ländler, con un maggior intervento dell’intera orchestra. Harding evita ogni eccesso interpretativo, facendo emergere invece la componente di danza grottesca, di vitalismo popolare filtrato da un’ottica quasi post-romantica.
Il terzo movimento (Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen), è una sorta di lento che riproduce la struttura di una marcia funebre (e non a caso l’idea extra-musicale originaria era quella, tratta da un'illustrazione satirica di un libro di favole per bambini austriaci, del funerale di un cacciatore con un corteo di animali, tematica molto cara alla cultura mitteleuropea, e presente anche in vari modi nelle composizioni di Leoš Janáček). Il materiale melodico inizialmente è addirittura una ripresa semiparodistica del celebre motivo popolare Fra Martino (Bruder Martin), modificato in modo minore. Qui Harding raggiunge momenti di rara intensità, sottolineando con maestria le fratture armoniche, le ambiguità tonali, le distorsioni timbriche.
L’attacco è affidato alle timbriche più gravi, con un contrabbasso solista in primo piano, seguito dal controfagotto e dal basso tuba; poi si inserisce l’intera orchestra, a cui fa da contrappunto una melodia intonata dall’oboe. Segue poi una parte dove si assiste a un deciso cambiamento delle tonalità, contrassegnato dall’uso delle percussioni, fino a riprodurre i suoni di un’orchestrina Klezmer, a marcare le origini ebraiche del compositore. Segue una sezione più contemplativa, dove viene ripreso il quarto dei Lieder eines fahrenden Gesellen, “Die zwei blauen Augen” ("I due occhi blu"). Il movimento si conclude con la ripresa in sovrapposizione di tutti e tre i temi, e con il motivo fondamentale mutuato dal primo tempo.
Il quarto e ultimo tempo (Stürmisch bewegt – Energisch), il più lungo e complesso, viene suonato dall’orchestra diretta da Harding in modo molto incisivo e con una dinamica netta e vigorosa, a sottolineare il suo carattere di sintesi, quasi di Aufhebung (in inglese latineggiante sublation, la conservazione che è insieme soppressione e superamento della dialettica hegeliana), degli altri tre movimenti. Pertanto, siamo solo parzialmente d’accordo con Adorno, allorché così si esprime: “nel finale della Prima Sinfonia il dissidio interiore si potenzia, al di là di ogni possibilità di mediazione, in una disperazione integrale rispetto alla quale evidentemente il trionfo conclusivo, con la sua spensieratezza, si sbiadisce diventando un semplice accorgimento di regia”.
Il movimento inizia con un repentino suono dei piatti e con un accordo forte di archi, fiati e ottoni, seguito in rapida successione da un colpo di grancassa. Poi continua freneticamente finché un tema lirico disteso non viene accennato dagli archi. Successivamente, Mahler ripresenta il motivo iniziale, variandolo in re maggiore, grazie all’intervento dei corni; ci aspetteremmo una climax, che però sorprendentemente non si realizza. Tutta l’energia si stempera in un’altra sezione lirica, che cita di nuovo il primo movimento e i motivi dei Lieder. Solo a questo punto il tema iniziale ritorna prima in minore con gli archi e poi in sol maggiore con gli ottoni: qui si raggiunge realmente una progressione ascendente, con il tono di fanfara e con una conclusione magniloquente - in parte mutuata dal Parsifal wagneriano - che l’orchestra di Santa Cecilia e il Maestro Harding, applauditissimi, riescono sorprendentemente a rendere senza retorica. Harding, senza indulgere al pathos fine a sé stesso, costruisce un arco narrativo che culmina nell’apoteosi finale come conquista e non come effetto. L’orchestra, in stato di grazia, lo segue con slancio e precisione: archi potenti e compatti, fiati espressivi, percussioni presenti ma mai invadenti. L’ultima pagina, trionfale e luminosa, non è una vittoria del Titano, ma piuttosto l’inizio di un nuovo viaggio spirituale, in perfetta consonanza con il disegno progettuale del ciclo.
Questo primo appuntamento con l’integrale mahleriano di Harding segna l’avvio di un ciclo che non si annuncia come semplice impresa monografica, ma come ricerca coerente su uno degli universi musicali più complessi e contraddittori dell’età moderna. La presenza di Joshua Bell ha aggiunto a questo disegno una componente di stabilità interpretativa e di profondità musicale, coniugando rigore analitico e immediatezza comunicativa. Il pubblico ha applaudito con vigore la magnifica performance, e per parecchi minuti dopo l'alzarsi della bacchetta del Maestro Harding.