Riflessioni sul poemetto di Silvio Raffo: Canti della clausura e del deserto

Articolo di: 
Silvia Bove
download-1.jpg

A partire da alcuni versi di Emily Dickinson che descrivono e inneggiano a un mondo più vivibile, come la seta, a  una ferrea forza interiore malgrado le imprecisate avversità, Silvio Raffo declina la propria condizione di prigioniero segregato in una metaforica torre nella quale le voci ripetitive che lo attanagliano sono sia l'espediente amico della sua giornata tanto le sue aguzzine. Questo è il tessuto essenziale dei Canti della clausura e del deserto, vincitori del premio Montale nel 1989 e pubblicati dalla raffinata casa editrice Scheiwiller.

Sono amiche non riconosciute, non appartenenti alla sua storia usuale, e in proiezione dinamica, privo d'orizzonte, il poeta è intrappolato e soffre: neppure la rimembranza leopardiana lo emancipa dal tormento, forse perché troppo riecheggiate o messe al confronto con il presente.

L'aria s'è resa desertica e il dialogo è oramai riferito alle cose. Ogni tanto lo visitano nella notte creature antropomorfe, sono forse i peccati incarnati di chi lo ha fatto soffrire. È perso e senza appigli, come quando si eclissò in un giardino da bimbo.

Neanche le sembianze di un angelo salvifico redimono il suo dolore, perché gli si donò oltremodo. I versi in metrica si fanno cupi e infernali e danteschi, come in dialogo interrotto e oscuro con la propria divinità celeste, che poi non è altro che il proprio sentire, l'io fondante riflesso nelle aspettative reali.

Come un fiume in piena, il poeta Raffo rivela il proprio dolore a sé stesso e agli astanti, lui che ama la luce non loda e non riconosce più le stanze della sua anima sofferente e di quelle sporadiche apparizioni fisiche a lui rimaste. Le mani una volta amiche sono oramai pressanti figure poste sulle mura come una prigione.

Le Gorgoni popolano il suo immaginario, la sua mente e il suo corpo di stanco combattente. Classicismo, crepuscolarismo e mistico sentire si intersecano con metafore interiori ed un parlare chiaro al proprio piccolo sé, in attesa che la fine del martirio renda nuova pace alle povere ossa depredate, alla voce della pianta che circonda la sua galera emotiva ed è divenuta la sua eterna sponda.

La sincerità del canto colpisce per lo stile lineare pur essendo profonda riflessione lirica sulla propria condizione. Infine l'accettazione del martirio permetterà alle carni di redimersi restituendosi all'unità dell'anima. La forza dei versi come una spirale rivela il sentire del poeta ed al contempo imbriglia, cattura il lettore ponendolo in una verità deflagrante narrata con impeto e classico tormento, una scala a chiocciola del cuore.

La luce riapparirà nell'accettazione della condizione di martirio. Ed è l'insegnamento finale del canto, l'apoteosi del suo candido lamento.

Pubblicato in: 
GN 23 Anno XII 16 aprile 2020
Scheda
Autore: 
Silvio Raffo
Titolo completo: 

 Canti della clausura e del deserto, Milano, Scheiwiller, 1990.