Mezzotints Books. Anteprima di Locus Animae

Articolo di: 
Alessandro Defilippi
Locus Animae

Con l'edizione digitale del romanzo d'esordio di Alessandro Defilippi, - già pubblicato in cartaceo nel 1999 e nel 2007 -, Mezzotints Ebook dà il via al suo 2014 con la collana Ombre. Un thriller metafisico che affronta lo sconosciuto, le verità sepolte, la dannazione, arrivando fino in fondo, come suggerisce lo stesso titolo. Con prefazione di Alan D. Altieri e cover di Les Edwards. In anteprima esclusiva per Gothic Network un estratto dal libro.

Avevamo deciso, per prudenza, che io sarei arrivato a Roma da solo. Irene mi avrebbe raggiunto la domenica, approfittando del ritorno a casa di suo cugino, che rientrava dopo una settimana trascorsa a Torino per affari. Così partii il primo di dicembre con il treno delle sedici, e scesi a Termini. Avevo prenotato due camere al Concordia, alle spalle di Piazza di Spagna. Mi piace Roma d’inverno, anche se ho spesso pensato che sia il mio essere torinese, questo sentirmi venuto da una marca di confine, a farmi avvertire con tanta forza il fascino delle grandi città. Mi è sempre parso che Roma sia uno di quei luoghi in cui possono accadere le cose: un luogo vero, uno dei pochi luoghi reali, reali forse proprio perché così improbabili. 

Entrai nella piccola hall arredata di mobili scuri, salutai il portiere che conoscevo da anni, e salii subito nella mia solita stanza, con la finestra che dava sul cortile. Avevo con me i bagagli per una settimana e il Toshiba portatile: non mi era rimasto molto tempo per concludere il mio saggio. E poi, mi è sempre piaciuto lavorare negli alberghi dove i viaggi mi conducono.

Perché fossimo più tranquilli avevo scelto un albergo di categoria media, lontano da quelli di solito frequentati dai colleghi. La mia stanza era elegante, ma piccola e piuttosto cara; l’albergo però era pulito e centrale, e d’altra parte l’unica cosa veramente costosa a Roma sono gli alberghi. Ero arrivato dopo la mezzanotte ed ero stanco: mi svestii senza pensare alle cose da fare l’indomani. Bevvi uno dei mignon di cognac che c’erano nel mobile bar – un Remy Martin – e andai in bagno. Feci una doccia breve e calda e ci ripensai: ritornai in camera, aprii un altro mignon e mi stesi sul letto, i capelli ancora fradici. Pare strano anche a me ricordare questi particolari a distanza di mesi, ma in realtà è come se negli ultimi giorni, nella casa estranea in cui trascorro questa tarda estate, tutto mi ritorni alla mente con la netta chiarezza degli animaletti di cristallo che una volta tenevo sul tavolino, in salone. E per di più mi pare che solo la cura dei particolari, il loro quasi maniacale articolarsi, possano in questo momento salvarmi. Da che cosa e per quanto tempo, poi.

Quella sera mi addormentai d’un sonno brutale e oscuro, non senza però aver prima frequentato le rive d’un qualche strano pensiero, come ogni notte. Allora si trattò d’una grande biblioteca sotterranea, dove si potevano trovare libri d’ogni genere. Scivolai nel sonno prima di scoprire se fra tutti quei volumi ci fosse quello che, nel sottile dormiveglia, m’era parso così importante, fondamentale addirittura per la mia vita, e di cui non riuscivo nemmeno a ricordare il titolo.

L’indomani mattina era sereno. Roma aveva il colore delle pesche gialle e i profumi della primavera. Scesi alla Barcaccia e m’incamminai lungo via Condotti. Per la colazione mi fermai al caffè Greco, affollato dal solito insieme eterogeneo di impiegati dei ministeri e di signore con pellicce troppo vistose, che parlavano a voce troppo alta dei gioielli di Bulgari e delle borse di Prada. L’anziano ed elegante signore che sorseggiava il suo espresso accanto a me fece sottovoce un commento sarcastico. Sorrisi continuando a mangiare il mio cornetto, e annuii senza rispondere. Uscendo mi ritrovai nella mattina tiepida di sole. Avevo appuntamento per le dieci con il mio editore. Faceva quasi caldo, le donne lungo la via erano belle e giovani, o tali mi parevano. Non c’era ragione di affrettarsi.

Gli uffici della casa editrice occupavano tutto il primo piano d’uno dei palazzi a forma di canterano che chiudono da un lato piazza Sant’Ignazio. L’incontro era più che altro una cortesia e un piacere; il responsabile delle collane scientifiche desiderava vedere la stesura iniziale del mio saggio su Irving Kastner. Kastner era un medico viennese allievo di Freud che, lavorando a Roma nel primo Novecento, aveva posto le basi dello studio dell’asse ipotalamo-ipofisario, il regolatore delle funzioni ormonali. M’interessavo da tempo a lui, almeno da quando avevo scritto il mio libro riguardo l’influenza della comunità ebraica sulle scoperte scientifiche della prima metà del secolo, e nell’ultimo anno avevo iniziato ad appassionarmi alla sua biografia. Non se ne sapeva molto.

Kastner era nato nel 1870. In aprile, come me. Dopo aver studiato a Vienna, sua città d’origine, s’era laureato in medicina a Parigi, e solo nel 1900 era ritornato in Austria, giusto in tempo per frequentare per alcuni anni i famosi mercoledì dell’allora già professor Freud. Aveva poi lavorato con Sigmund Exner, cui era stato presentato dallo stesso Freud, suo antico allievo, occupandosi dell’istologia e della fisiologia del sistema nervoso centrale e progredendo nella carriera universitaria fino al 1905, anno in cui s’era finalmente trasferito a Roma, chiamatovi dal governo italiano come libero docente di neurologia presso l’Università Cattolica. Erano stati quelli, certo, gli anni più proficui della sua attività, quelli durante i quali aveva avuto l’intuizione, allora davvero straordinaria, di un controllo centrale dell’attività ormonale. E arrivarono il successo e i riconoscimenti da parte del mondo accademico. Fino al 1912. Un bel mattino del gennaio di quell’anno, infatti, il professor Irving Kastner era uscito dal suo appartamento in via delle Guglie ed era sparito, come volatilizzato. Aveva abbandonato tutto: una fidanzata appartenente a una ricca famiglia della nobiltà romana, la cattedra conseguita e un’attività privata che prometteva di renderlo ricco. Si fecero allora le più svariate ipotesi, da una fuga in Brasile all’omicidio, dal rapimento a una crisi di amnesia. Dopo, come sempre accade, ci si dimenticò della cosa.

Di Kastner non si seppe più nulla fino a quando, il 3 agosto del 1914, il giorno dello scoppio delle ostilità in Belgio, in un appartamento di piazza delle Cappelle, poco lontano dalla sua vecchia casa, egli venne ritrovato morto. L’inchiesta, piuttosto sbrigativa, si svolse senza grande scalpore: i tempi, così difficili da far pensare a questi nostri, erano tali da non permettere molto interesse per il ritrovamento di un cadavere. La conclusione fu comunque di suicidio: Kastner era stato trovato impiccato a un gancio da macelleria, che lui stesso – si disse – aveva infisso nel soffitto con un lavoro paziente e abile, quasi da muratore professionista. Vari decenni dopo si venne a conoscenza che Kastner non s’era realmente impiccato. Era stato trovato appeso al gancio con l’estremità inferiore piantata nella gola, come se fosse salito su una sedia o una scala e si fosse lasciato cadere sulla punta. Una morte brutta. Una morte strana, tenuta nascosta dai congiunti per timore che la sua memoria ne avesse troppo a soffrire. Non aveva lasciato nessun messaggio e di lui, dopo che la sua eredità venne divisa tra i parenti viennesi, non si parlò più. La cosa più sorprendente fu che l’eredità di Kastner si rivelò minore del previsto, come se il suo denaro fosse stato tutto speso durante gli anni della sua scomparsa, o donato, o comunque perduto. L’importanza di Kastner riemerse infine negli anni Venti, quando Banting e Best, comunicando i risultati delle ricerche sull’insulina che avrebbero valso loro il Nobel, si rifecero ai suoi primi, straordinari lavori. Da allora il suo nome comparve e scomparve nei testi universitari con l’erratica frequenza di una falda acquifera in un terreno sconosciuto: a volte evidente, a volte celata in profondità. L’anno scorso un mio sin allora vago interesse si concretò nella decisione di scrivere una biografia di Kastner. Venni a sapere, da un mio assistente di ritorno da un congresso, che alla biblioteca della Fondazione Robert Withofer di Roma era stato ritrovato, già nel 1935, un ampio lascito a nome Kastner. Fu quello, insieme alla curiosità e a un certo senso di comunanza – Freud e l’endocrinologia, una strana accoppiata frequentata da entrambi, e la mia nonna materna viennese –, a indurmi a ricerche più approfondite. E così, eccomi lì a Roma, in quell’inverno troppo tiepido.

Il dottor Olivieri mi accolse con un grande sorriso sulla larga bocca cavallina. Mi era simpatico, come io a lui. L’anno precedente avevamo trascorso diverse sere al congresso di Arles bevendo Chablis e discorrendo di libri, di medicina e, com'era inevitabile, di donne. Ci conoscevamo abbastanza bene, anche se, come molti uomini che avevano ormai doppiato la boa dei cinquant’anni, non avevamo cessato di darci del lei.

«Professor Gribaudi, Riccardo, come sta?» La cordialità di Olivieri, che appariva sempre lievemente affettata, era in realtà sincera. Aveva quella dose di entusiasmo che solo di rado si incontra tra le persone della nostra generazione. Mi sedetti e risposi alle sue domande, rapide e precise. Sì, avevo approfittato del congresso di endocrinologia ginecologica che sarebbe iniziato la domenica sera per venire a Roma e documentarmi meglio su Kastner. No, in verità del congresso in sé non m’importava molto; da un paio d’anni ormai della pratica clinica e del reparto s’occupavano Liprandi e Federici, due dei miei aiuti, mentre io mi dedicavo completamente alla ricerca e alla divulgazione. Quell’anno, per di più, non avevo nulla da presentare al congresso europeo. Ero stato troppo assorbito dalla seconda stesura della biografia di Banting e Best. I ragazzi crescevano bene; stavano con Marta, la mia ex moglie; li vedevo comunque piuttosto di frequente. E io, anch’io stavo abbastanza bene, in ogni caso, anche se l’umore non era granché.

Tacqui infine, dopo il rincorrersi serrato delle domande di Olivieri. Rimanemmo in silenzio e in quel momento colsi, nello sguardo del mio interlocutore, un qualcosa che passava, come un’ombra, un piccolo dolore che però intuivo per me, dedicato a me. Fu una sensazione calda, di vicinanza improvvisa. Poi l’ombra passò e ritornammo a essere due colleghi di mezza età che si raccontavano un anno di lontananza.

Toccava a me, adesso, domandare: «Sua moglie?»

«Sta bene, grazie. È a Todi da mia suocera, per qualche giorno». Olivieri sorrise. «Si è portata anche i bambini, e così sono solo con il gatto». Sorridemmo entrambi. «Potrebbe essere un’occasione per cenare insieme», propose Olivieri.

«E magari sbronzarci un’altra volta», risi io.

«D’accordo, allora». La voce di Olivieri era allegra.

Tacqui d’improvviso, e aggiunsi, rapidamente: «In queste prime sere, però. Non più avanti». Le parole erano risuonate incerte e imbarazzate. Anche per me.

Olivieri annuì, il volto serio. La piccola ombra era ritornata. «Certo». Un silenzio breve. Un sorriso leggero, d’amicizia. «Arriverà anche la dottoressa Grandis?»

Anch’io sorrisi, senza allegria. «Sì», risposi.

Pubblicato in: 
GN14 Anno VI 13 febbraio 2014
Scheda
Autore: 
Alessandro Defilippi
Titolo completo: 

Locus Animae
Mezzotints Ebook – Collana Ombre
Prefazione di Alan D. Altieri
Illustrazione di copertina di Les Edwards
Formato ebook (epub, mobi)
Pagine: 160 - Lingua: Italiano
ISBN epub: 9788898479214
ISBN mobi: 9788898479221
Prezzo di copertina: € 2,99